Tra fede e potere torna il dramma di Las Casas
Un vento d'attualità - perché quel nodo resta tutt'altro che sciolto - soffiava giovedì sera a San Miniato, dove dal 1948 si celebra, promossa dall'Istituto Dramma Popolare, la «Festa del teatro». Il testo infatti che il poeta Roberto Mussapi ha tratto dal famoso romanzo Bartolomeo de Las Casas di Reinhold Schneider, era molto adatto a questa opera di attualizzazione. Domenicano, Bartolomeo de Las Casas si distinse, sotto Carlo V, per l'indomabile lavoro di evangelizzazione nel Nuovo Mondo e per la lotta sostenuta contro i conquistadores e i loro metodi nei confronti degli Indios. Un giurista spagnolo, il dottor Sepulveda, consigliere fidato dell'imperatore, sostiene però, contro Las Casas - che reclama piena libertà per gli Indios - che non può esservi evangelizzazione senza previo inquadramento della popolazione in un ordine statale, e che di conseguenza la stessa evangelizzazione deve avvenire sotto l'egida del regno. Sicuramente Schneider non è storico ineccepibile allorché mette in bocca a Sepulveda tesi più che gesuite, hegeliane. Ma ciò non costituirebbe problema se una certa sufficienza riguardo alla storicità del dibattito non ne falsasse, poi, il contenuto.
Las Casas appare qui come un'anima candida, che altro non conosce se non la legge di Dio, in lotta contro un mondo di disonesti che fanno della parola di Dio uno strumento di dominio. Se però cosi fosse, apparirebbe quantomeno utopico l'atteggiamento di Carlo V, alla fine, contro ogni senso dello Stato, darà ragione a Las Casas, «folle di Dio». Restando a un livello astratto, senza storicizzare, l'unico succo che si può trarre dalla storia è un succo pacifista: il cristianesimo è contro la guerra, perciò il cristiano non può fare la guerra, e chi fa la guerra non è cristiano. Se si storicizza, si recupera il ruolo originale della Chiesa in una vicenda drammatica come la conquista del Nuovo Mondo, si operano dei distinguo necessari, soprattutto oggi che si vuole eliminare il cristianesimo dalla faccia dell'Europa, e si coglie la vera essenza del problema, che è la seguente: uno Stato non è libero se non riconosce al suo interno la piena libertà della Chiesa. A San Miniato abbiamo assistito a uno spettacolo consolatorio, che ricorda gli sceneggiati della tv di Bernabei, con un Las Casas (Franco Graziosi) troppo esile e disincarnato e con troppe discussioni sui massimi sistemi. Non dico che non ci fossero dei pregi: lascenografia di Darnele Spisa, per esempio, con un'impalcatura che sosteneva uno schermo e diventava, a seconda di quanto vi era proiettato, nave, chiostro o reggia. Sugli attori non c'è da ridire, anche perché si conosce la difficoltà di recitare in questo tipo di spettacolo. Allo stesso modo, al regista Giovanni Maria Tenti si può imputare una certa corrività, anche se l'aver condotto tutto lo spettacolo nei binari di un'assoluta semplicità e comprensibilità va suo onore - grazie anche all'esemplare chiarezza della versione di Mussapi, un po' rigida solo nei dialoghi della prima parte. E' sul tipo di spettacolo che ho da ridire: sempre più ritirato in sé, sempre meno spregiudicato, sempre meno voglioso di porre una parola forte e originale dentro il mondo, sempre meno capace di vera provocazione, capace, al massimo, di accodarsi a posizioni note e poste da altri. Non è questo il teatro che desideriamo vedere a San Miniato. A San Miniato vogliamo vedere non un teatro del passato, ma un teatro del 2003 per gli uomini del 2003.
Luca Doninelli, Avvenire, Roma, 19 luglio 2003
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