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Avvenire - La recensione di Luca Doninelli
 

Va in scena la conversione di San Paolo
La Festa del Teatro di S. Miniato compie cinquantacinque anni: un traguardo che non ha paragoni nel pur ricco panorama di festival, feste, rassegne teatrali di cui si popola il nostro Paese durante l'estate. Il nuovo secolo porta, inoltre, una novità sostanziale, già documentata su queste colonne: il passaggio della direzione artistica nelle mani del laico Franco Palmieri, attore, regista e produttore.
E la novità si è vista subito, con questo Saulo di Tarso - opera di Oscar de Lubicz Milosz, poeta lituano d'inizio secolo, celebre in Italia soprattutto per il suo Miguel Manara - che Palmieri ha affidato alla regia di Maurizio Schmidt e all'interpretazione di un gruppo molto affiatato di attori guidati da Virginio Gazzolo.
Abbiamo detto novità. Innanzitutto la scelta del tema, che dopo le recenti polemiche teologiche e lo straordinario viaggio del Papa sulle orme di S. Paolo è più che mai centrale nella nostra cultura. Dato il ruolo del cristianesimo nell'edificazione della civiltà occidentale, l'insistenza di molti storici e teologi sulla tesi (ottocentesca) secondo cui il cristianesimo sarebbe una creazione di Saulo di Tarso, il quale avrebbe dato fondamento e struttura a Una delle tante figure della spiritualità giudaica del tempo, certo Gesù di Nazareth - ebbene, tale insistenza equivale a un di scredito di fatto, alla riduzione del cristianesimo a fenomeno culturale, con conseguente placet alla sua scomparsa qualora venisse meno - e il rischio c'è purtroppo - la sua "necessità storica".
Su questi punto il Saulo di Milosz, testo quasi autobiografico nel quale il grande poeta lesse la storia della propria stessa conversione, dà una risposta netta: la conversione, l'illuminazione del cuore che muta senso all'esistenza personale e universale, è sempre dovuta a un fatto: l'incontro personale con Gesù Cristo. Milosz affronta con mirabile razionalità questo punto, mostrando la conversione non già come un prodigio slegato dai complessi problemi della vita terrena, ma, anzi, come la naturale (naturale perché soprannaturale) soluzione di quei problemi, la risposta sorprendente, inimmaginabile e insieme ragionevole. Cristo ci si comunica attraverso una persuasività umana senza paragoni.
Durante la conferenza stampa, Palmieri ricordava il commento di Roberto Longhi al S. Paolo di Caravaggio, là dove azzarda che la luce divina, che lo colpisce, avrebbe potuto essere anche quella della lampada della stalla. Ecco, è così: è dentro la luce quotidiana che la luce di Dio si comunica. La vede sempre chi la vuol vedere, e la libertà non è mai violata.
La scommessa di Maurizio Schmidt è stata questa: costruire uno spettacolo popolare centrandolo sul sismografo della libertà. Eventi eclatanti, insomma, che tuttavia, se ben osservati, non sono altro che la somma di mille piccoli eventi quotidiani. Virginio Gazzolo è magistrale nell'interpretare insieme Saulo, il padre di lui e lo scrittore Milosz: lo fa con naturalezza, comunicando tale stato anche allo spettatore.
Bravi gli altri attori, belle le scene, bellissime le luci. Conclusione sotto il temporale, con lungo, intenso applauso finale.
Restano poche righe, ed è un peccato, per l'ottimo spettacolo visto nel pomeriggio, alla Fortezza di Volterra: un intervento di Punzo e dei suoi amici detenuti della Compagnia della Fortezza sul tema dell'Amleto, intorno a cui ruota gran parte di Volterrateatro di quest'anno. Punzo siede al centro della scena in compagnia di un chitarrista. La scena è composta da un giardino-cimitero pieno di fiori (sicuramente quello dove giace Ofelia) e da cinque facciate di casette inglesi elisabettiane. Ma la finzione storica, la rappresentazione luttuosa si sgretolano a poco a poco sotto il trapano del presente. I brani dal testo scespiriano e da altri testi di autori misuratisi con il fallimento di Amleto venivano recitati alternativamente da una voce fuori campo e da un attore sardo, alto biondo e tatuato, dalla voce grave e spessa come un'esalazione di torba. Anno dopo anno, la lingua teatrale di Punzo acquista sempre più in essenzialità e forza.
Luca Doninelli, Avvenire, 21 luglio 2001




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