Quel Bernanos c'interroga nella notte di San Miniato
In quest'Italia estiva e festivaliera in cui troppo spesso il teatro appare figlio del consumismo e della smemoratezza, e dunque sotto le stelle volano parole vane e fallaci, c'è una piccola oasi isolata e felice dove il verbo, la parola teatrale trova ancora una sua risonanza non effimera. È questa di San Miniato nel cuore antico della Toscana, nell'estrema propaggine del territorio pisano che guarda già a Firenze. Cittadina, San Miniato, superba per panorama ma ricca di storia e di cultura se vi passarono Papi e vicari imperiali e imperatori stessi, quali Napoleone il grande, che da oltre 40 anni - siamo ormai alla 43esima edizione e la funzione non s'è esaurita anche se negli ultimi anni s'è verificato un piccolo calo di attenzione ma la volontà degli organizzatori è in ripresa come conferma Marco Bongioanni - ha creato una autentica Festa del Teatro. Festa appunto nel senso di comunione e di capacità di andare incontro all'uomo e ai suoi progetti, interpretandone a un tempo le tensioni ideali e le esigenze dello spirito.
Festa, promossa dal fattivo Istituto del dramma popolare nato (per merito di pochi generosi ed entusiasti, in testa il compianto don Ruggini) all'indomani dell'ultimo conflitto mondiale e vedi caso battendo sul tempo lo stesso Piccolo Teatro di Milano, che si pone dunque come un Teatro di crescita culturale e insieme di profonda spiritualità e di poesia capace di trasfigurarsi in fede, anzi in un inno alla fede.
San Miniato del resto sembra avere una sua provvidenziale vocazione al teatro, posta com'è sotto la protezione di San Genesio, mimo e martire di Cristo, folgorato dalla Grazia mentre stava parodiando in un anfiteatro i misteri cristiani. Non a caso, il primo lavoro allestito su questa piazza che nella sera estiva acquisisce una bellezza metafisica (chiesa e palazzi centenari che sembrano illuminarsi di un incanto sconosciuto) era centrato sulla figura di Genesio patrono della città. Ed era La maschera e la Grazia di quell'Henri Gheon che il teatro europeo ha dimenticato troppo in fretta.
Cosi anche quest'anno si ascende lo splendido colle samminiatese nell'ora dolce e delicata del tramonto non per assistere ad uno svagatro divertimento ma per andare insieme allo spettatore più maturo e quello più giovane in cerca di verità e certezze alla scoperta di un lavoro dal denso significato etico. L'opzione caduta sul nome forte di Georges Bernanos. Autore già peraltro entrato, e ben due volte, anche se in lontane stagioni, nella «leggenda» di San Miniato. E fu nel 1952 L'ultima al patibolo ovvero I dialoghi delle Carmelitane per la regia di Orazio Costa e di Sotto il sole di Satana nella riduzione di Diego Fabbri e Claudio Novelli nel 1965 per la regia di José Quaglio.
Questa volta la scelta, ancorché venuta un poco frettolosamente e pur giustificata, mirata su L'impostura forse, o almeno da noi, la meno nota e la più riposta tra tutte le opere di Bernanos ma non per questo meno attuale. Si tratta infatti di un romanzo (Ténèbres in un primo tempo doveva essere il suo titolo) dal taglio molto tetrale nato nella fervida stagione degli anni Venti e che sta tra l'appena citato Sous le soleil de Satan e quella Gioia che in un certo senso de L'imposture è da ritenersi la conclusione. Opera nella quale, come già acutamente ha annotato Hans Urs von Balthazar «fa propria la trama della menzogna amata e cercata per se stessa, ed accettata con tutto quanto implica nelle conseguenze estreme ed inestimabili».
Al centro, aggredito nel vivo dei suoi pensieri, braccato come dallo sguardo di un vicino misterioso, è la figura dell'abate Cénabre che è personaggio scolpito per mano della stesso duro scalpello da cui è uscito un personaggio come Monsieur Ouine. Cénabre è colui infatti che dominato se non da un demone meridiano da un demone notturno, ha sempre creduto di poter conoscere completamente la santità, cioè la Grazia, e come autorevolmente sottolinea mons. Pasquale Macchi nel suo tuttora preziso saggio su Il volto del male in Bernanos «si perde perchè vuole portare nei suoi studi solo la perspicacia umana, solo l'ansia della sua prevaricatrice intelligenza, confidando con questo di poter giungere a dimostrare tutto». Cénabre, che alla pari di Don Giovanni che recita il ruolo del seduttore fino alla nausea e al vuoto di se stesso, recita il ruolo dell'impostore fino a rasentare il baratro estremo, fino alla perdita della fede, sviluppando la tragica facoltà di focalizzare le imposture altrui al punto di non poterle più sopportare. Donde, prima la sua ostinazione verso il giovane e mediocre giornalista Pernichon che distrugge con sottile perfidia portandolo al suicidio dopo avergli mostrato la limitatezza del suo animo piegato ai compromessi in nome di una carriera di cui sono altri più abili di lui a tirare le fila. Poi verso il cencioso Framboise, ilare clochard la cui vita poggia su un castello di bugie, incrociato da Cénabre in una delle sue notti di nevrosi e di angoscia.
Il romanzo peraltro include e si conclude con la morte di costui, anche il personaggio dell'umile e pio abate Chevance, il «sacerdote dal cuore umile e puro», (il «confessore di serve» ma anche della mite e nobile Chantal, la ragazzina di buona famiglia l'unico personaggio femminile che entra nell'arazzo), al quale Cénabre domanda con un misto d'orgoglio e di disperazione l'assoluzione. Finale ambiguo, aperto alle più libere supposizioni. Ad un presagio d'amore capace di distruggere il male, come al male che resiste perenne nella storia umana.
Nell'accorta, sorvegliata traduzione di Luigi Lunari, la riduzione arriva di Francia. La firmano Pascal Bonitzer e Gerard Wajcman. Drammaturgicamente il lavoro rivela dei limiti. Non tutti i quadri (anzi i «notturni» perchè il dramma è scandito in 4 notturni) offrono la stessa tensione. Ma lo spettacolo firmato dalla regista Brigitte Jaques (in Francia recentemente la versione originale ottenne un prestigioso premio Molière), che nella scenografia di Emmanuel Peduzzi ha trovato un valido contributo (la scena è una sorta di piattaforma poggiata sopra una stilizzata veduti di Parigi) è rigoroso e quasi sempre di bella tenuta espressiva anche là dove la Jaques lascia soffiare sui personaggi un vento grottesco. Di più, la sua sottigliezza porta a dare alla figura del protagonista una valenza simbolica ancora più vasta. Al di là dell'abito talare, Cénabre può essere visto come il politico, lo psicologo, lo scrittore che nella nostra società recita sul palcoscenico del «gran teatro dell'impostura».
Resta da dire di una recitazione complessivamente buona. Affidata a sicuri professionisti. Da Antonio Pierfederici che è un abate Chavance di qualche enfasi a Mario Maranzana che schizza una colorita, fin troppo colorita macchietta di Framboise a Fernando Caiati un Guereu di forte presenza. Ai più giovani Franco Castellano (Pernichon), Sergio Fiorentini, Piero Caretto, Carlo De Meio, Augusta Gori. Ma su tutti emerge e sopravanza di varie lunghezze Roberto Herlitzka il cui Cénabre per forza inventiva, segno secco e nevrotico, s'inserisce tra le migliori prestazioni date da questo nostro attore (che grande Misantropo potrebe essere soltanto che un bravo regista lo valorizzasse!) cosi anomalo e al tempo stesso meno popolare di quel che meriterebbe.
Buon successo alla «prima» alla quale era presente anche il figlio di Bernanos, Jean Loup.
Domenico Rigotti, Avvenire 23 luglio 1989
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