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La recensione di Arnaldo Mariotti
 

Drammatico dialogo a distanza
Nella fedeltà a quel « perimetro imposto dalla ricerca del nuovo e dal rispetto dell'originario » che definisce l'area entro cui l'Istituto del Dramma Popolare san-miniatese persegue da 32 anni la propria attività, è stato presentato a San Miniato, per l'annuale sua festa del teatro, il dramma Eloisa e Abelardo, opera prima di Franco Enriquez, il quale ne ha curata anche la regia.
« Lettere d'amore in forma di teatro » ha definito Enriquez il suo testo: definizione esatta, perché ne chiarisce le fonti -— quel lungo carteggio fra il filosofo medioevale e la sua allieva e sposa, che fu giudicato « documento umano fra i più commoventi della letteratura universale ». Ed al tempo stesso ne evidenzia i limiti, d'altronde resi meno avvertibili dalla sincera partecipazione dell'autore. Dalle lettere, più e meglio che dalla vicenda in se stessa, è nato in realtà un dialogo drammatico impastato e fatto lievitare da confessioni franche e ardite, ad opera di creature vive, alle quali il turgore tumultuoso dei sentimenti reciproci non impedì di porre mente all'universale, che è poi l'aggancio autentico al soprannaturale. Non si tratta, qui, di esseri che si accampano nel gran teatro del mondo consci soltanto del loro « particulare » cioè del loro amore negato dagli uomini e dalle circostanze, che finirebbe allora per intridersi in una sorta di petrarchismo. C'è invece la verifica del cuore umano piagato, che attraverso le proprie inclinazioni, colpe, tentazioni, disperazioni, cerca nella sintonia propria dell'amore la via che conduce a Dio creatore per il tramite della persona  cara.
Eloisa si associa al lungo patire di Abelardo (« colui che è tutto per lei dopo Cristo »), nel quale convivono il timore di non essere in grado di aiutare l'amata così come prima era riuscito a travolgerla, e quello di essere giudicato lontano da Dio là dove aveva invece usato di tutta la sua ragione per giungere a Lui.
Sarebbe comunque errato focalizzare il dramma di Enriquez sulla romantica e romanzesca storia di un grande amore infelice; né l'autore ha voluto certo costruire con la pedanteria di uno storico la sofferta realtà che i documenti tramandarono. La sua proposta drammatica, rivestita sostanzialmente delle parole dei protagonisti, si sviluppa invece in funzione di un disegno che scava nell'intimo dei personaggi, realizzando una radiografia che ce li consegna indifesi ma autentici, collocati in quella « età di mezzo » in cui la loro storia umana e religiosa si consumò.
Abelardo è filosofo cristiano, perché il suo pensiero appare il prolungarsi di una fede. Uomo nuovo, certo, per gli anni in cui visse  (1079-1142)  e ricco di intemperanze e di errori che condussero per due volte alla condanna per eresia; ma il suo spirito dialettico, fortemente accentuato anche nell'opera teologica, lo condusse ad anticipazioni fondamentali, come quella (ricavata dal « Conosci te stesso ») che l'intenzione può rendere buone e cattive le nostre azioni e che l'errore nel giudizio diminuisce la colpa. Del resto una sua affermazione, inserita propria in un'epistola ad Eloisa, suona categorica e definitiva: «Non voglio essere filosofo se devo ribellarmi a San Paolo; né divenire Aristotele, se devo staccarmi da Cristo».
Il romanzo d'amore con Eloisa, colta e bellissima sua discepola, ebbe inizio quando il filosofo insegnava dalla cattedra parigina di Notre-Dame; alle nozze segrete fra i due, seguì l'atroce vendetta — l'evirazione — fatta eseguire da Fulberto, zio della giovane. Separati, Eloisa prese il velo nel monastero di Argenteuil, Abelardo vestì il saio monastico; il rapporto proseguì in via epistolare, prolungandosi finché altre molte vicissitudini condussero Abelardo alla morte, nell'abbazia di Cluny, dopo che la mediazione di Pietro il Venerabile lo aveva fatto riconciliare con San Bernardo e con la Chiesa.
Proprio dall'orazione funebre pronunciata da Pietro dinanzi al cadavere di Abelardo prende le mosse il dramma, il quale si sviluppa poi a mezzo di una serie di « flashes-back » che accennano con molta discrezione alle tappe miliari della vicenda e si immerge quindi nel colloquio a distanza fra Abelardo ed Eloisa, tratto dalla loro lunga corrispondenza ed alternativamente « detto » dai due protagonisti. La pregnante professione di fede di Abelardo, meglio che le ultime parole di Eloisa le quali intenderebbero glorificare « chi ha cercato di dare alla ragione giusto primato  sull'altrui perfidia », conclude il dramma.
Franco Enriquez, che completa così il suo curriculum di uomo di teatro - regista notissimo, attore a cinquantanni, ora anche autore — è stato il « metteur en scene » di se stesso, ed il suo merito maggiore, a nostro parere, è quello di essere riuscito a comporre uno spettacolo di rara severità, offrendo uno spunto alla fantasia dello spettatore, senza peraltro esagerare in inganni esornativi tali da disperdere la interiorità del suo testo. Talune immagini rese anche coreograficamente, in specie nella seconda parte (pensiamo alla scena in cui Eloisa raccoglie a fili delle matasse che le porgono le sue suore, a quella che tratteggia la condanna del Concilio), hanno una loro sicura efficacia. Troppo insistita ci è parsa, semmai, la sequenza della lettura dell'epistolario, alla quale gioverebbe un certo sfoltimento. Sulle scansioni articolate dal dialogo, non esenti da forme oratoriali, potrebbe forse intervenire un aggiornamento utile per la completa intellegibilità del dramma.
Interpretazione eccellente: sia da parte di Valerla Monconi che ha saputo piegare il suo sanguigno temperamento per chinarsi nei recessi angustiati e profondi di Eloisa, sia da parte di Nando Gazzolo che ad Abelardo ha offerto una verità psicologica che testimonia della sua partecipazione umana al complesso personaggio. Carlo Hintermann (San Bernardo) e Giampiero Becherelli (abate di Cluny) hanno detto la loro parte con bella sicurezza.
Lo spettacolo ha per sede la bella chiesa di San Francesco, utilizzata in modo che il portale d'ingresso costituisca il centro del palcoscenico e, allorché viene aperto, offra soluzioni sceniche di suggestiva profondità. L'allestimento scenico di Franco Bonaiuti realizza due « praticabili » a varie altezze, centrati sulle vaste acquasantiere già esistenti nel tempio: luoghi deputati che lasciano posto ad un vasto corridoio centrale ove si sviluppano le coreografie di Julie Goell. Soluzione efficace e funzionale, di ottima resa. I costumi di Mikulas Rachlik sono semplici ma non privi di fantasia.
Arnaldo Mariotti Avvenire, 27 Agosto 1978




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