L'ultimo Strindberg
Era uno Strindberg monco, privo dei suoi interrogativi ultimi e forse dell'approdo finale di un'esistenza tormentata, quello che fino ad ora avevano mostrato in questo secolo i palcoscenici italiani. Il tassello che mancava per completare il mosaico della personalità dello scrittore svedese è stato fissato sul palcoscenico nero e spoglio della piazza del Duomo di San Miniato, dove l'Istituto del dramma popolare ha scelto un lavoro dello scrittore svedese, mai rappresentato in Italia, per la 44ma edizione della «Festa del Teatro».
La grande strada maestra, testamento spirituale di uomo solo che si avvicina alla fine (siamo nel 1909 e Strindberg morirà tre anni dopo), è l'ultimo grido disperato verso l'infinito, l'ultimo viaggio alla ricerca di una verità che, alla fine, sembra rivelarsi. Un inno alla disperazione lanciato contro il mondo da un cacciatore (a cui Massimo Foschi presta i propri lineamenti «vissuti»), che si avventura in un ultimo viaggio all'interno dell'umanità e dei suoi vizi, per poi ritrovarsi nudo davanti a Dio.
Il cacciatore è l'uomo combattuto dalle opposte attrazioni dello Zenit e del Nadir, delle aspirazioni elevate e di quelle meschine. All'inizio del dramma, seduto in cima ad un monte e circondato dalla natura selvaggia, il protagonista sente di dover decidere quale debba essere la direzione del suo ultimo cammino, lungo la «grande strada maestra».
Un viandante (Carlo Simoni) lo accompagnerà nel viaggio alla ricerca di se stesso, in mezzo a quegli uomini dai quali il cacciatore era appena fuggito. Comincia così un'immersione tra i tanti volti dei vizi umani: i due incontrano dittatori superbi, portaborse ipocriti, assassini spietati, avari, femministe, borghesi conformisti.
Tra gli interpreti di questo «zoo», la multiforme Milena Vukotic si cala in quattro ruoli diversi. Tutto quel mondo, insomma, del quale il Cacciatore era stato parte integrante — stimato avvocato — prima di cominciare a porsi domande e a provare il dolore ed il tormento della mancanza di risposte. Tra le tante, come un'inquietante profezia, spicca la figura di un giapponese di Hiroshima che chiede di morire cremato, ridotto in cenere (36 anni prima della bomba atomica).
Strindberg — che il regista Mario Morini interpreta senza fronzoli, senza ricorrere ad effetti scenici o musicali — usa una satira pungente per mettere in croce i peggiori sentimenti e la miseria degli uomini. Tra tutti, salva solo l'infanzia: e sarà una bambina, la figlia che la moglie gli ha strappato anni prima (un inciso autobiografico per Strindberg), a dare l'ultimo brivido al Cacciatore, prima della «resa» allo Zenit, a Dio, a cui chiede la benedizione per un uomo che ha sofferto «l'atroce dolore di non essere colui che voleva essere».
Il Secolo d'Italia, 26 luglio 1990
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