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La Nazione - La recensione di Paolo Lucchesini
 

Si consuma nella notte il dramma dell'eresia
L'Istituto del dramma popolare ha compiuto quarantatre anni, età ragguardevole per un'istituzione teatrale, sorta all'alba della nuova Italia, precedendo di qualche mese il Piccolo di Milano. San Miniato, per primo, si propose come modello di un teatro di impegno e non di intrattenimento, di novità e non di repertorio, di crescita culturale dello spettatore e non di solo divertimento, con in più una precisa attenzione a tematiche, diciamo, esclusive che attenessero alla sfera della spiritualità. Negli ultimi dieci - dodici anni, però, le cose sono cambiate: l'istituzione è apparsa in crisi di idee, dando l'impressione di ricorrere di volta in volta a soluzioni tampone — alcune anche azzeccate —, finalizzate alla caccia di un Nome, un Personaggio, un Caso di richiamo. Di fatto l'Istituto si è progressivamente isolato non riuscendo più a mantenere rapporti concreti con autori, registi, operatori... Ebbene, com'è possibile che l'Istituto, che «deve» ogni anno mettere in scena una novità, non si sia ancora rivolto alla giovane fiorente drammaturgia italiana? Non sarebbe stato più lecito rischiare consapevolmente con una novità italiana invece di trovarsi costretti ad agguantare all'ultimo momento un adattamento da un romanzo straniero, solo perché è firmato da Georges Bemanos ed ha ottenuto un buon successo e il premio Molière a Parigi? Diciamo tutto ciò perché vorremmo che l'Istituto del dramma popolare, sia pure in tempi mutati, ritrovasse il prestigio o, almeno, lo spirito d'intrapresa di un tempo. L'impostura, riduzione di Pascal Bonitzer e Gerard Wajcman, infatti, è un esempio di soluzione tampone, un ripiego firmato, dopo aver rincorso inutilmente altri progetti a sensazione. La pièce, così com'è stata proposta, ci ha lasciato perplessi. In primo luogo L'impostura sembra ingigantire i limiti di molte riduzioni da opere letterarie a livello di mera comprensione, eludendo il tessuto descrittivo, insostituibile elemento di connessione fra accadimenti e rapporti fra personaggi e di riconoscimento di luoghi e momenti storici rappresentati. Dei quattro notturni che compongono il lavoro, soltanto le scene in cui è presente il protagonista, l'eretico abate Cénabre, canonico e filosofo, hanno un senso compiuto: il dramma della menzogna di un uomo di un'intelligenza superba che non riesce più a sostenere l'impostura di essere prete, un eccellente prete, che ha perduto la fede. Solo nella prima e nella terza notte siamo di fronte a un dialogo a tratti scintillante, teatralissimo che, da solo, esprime il travaglio di Cénabre, diabolico istrione, seducente e impudente, capace di confondere e precipitare le coscienze altrui. E' tale la sua vertiginosa, sulfurea argomentazione che nessuno riesce a resistergli, sconvolto, spinto brutalmente sull'orlo del baratro, dove lui, maestro di trucchi e di dottrina, saltella scherzando con la morte. E in Cénabre, ma anche nel giovane giornalista Pernichon e nel barbone Framboise, si riflettono le angosce dello stesso Bernanos.
Criptici sproloqui, invece, le altre parti della pièce. Cionostante non possiamo fare a meno di considerare il lavoro della regista Brigitte Jaques che ha saputo ben definire e colorare le varie situazioni, evitando la trappola verista, anche in relazione alla bellissima scena di Emmanuel Peduzzi che fa del palcoscenico una sorta di zatterone sospeso sui tetti grigi parigini. Accenti grotteschi con qualche punta di grand guignol si avvertono nella misterica seconda notte, quella in casa Guerou con suicidio finale di Pernichon; un certo gusto per l'iperbole esalta la figura di Cénabre; si respira aria da varieté quando si produce Framboise. Eccellente Cénabre quell'attore, forse unico in Italia per puntiglio ed eclettismo, che è Roberto Herlitzka: ci piace confrontare questo abate demoniaco, figlio di una società del successo, con il suo passionale, ieratico Savonarola spoletino, due modi di vivere tragicamente il sacerdozio. Divertente, lascivo, opportunista il Framboise di Mario Maranzana; pacato e dolente il vecchio abate Chevance di Antonio Pierfederici; sofferto e stupefatto il Pernichon di Franco Castellano.
PAOLO LUCCHESINI, La Nazione, 21 luglio 1989




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