Parabola «evangelica» in scena a San Miniato
Una parabola evangelica, un dramma che propone una ricerca nelle più dolorose incertezze dell'essere uomo, una rappresentazione che la critica britannica definì «surrealista», alla quale manca, in fondo, solo l'intercalare liturgico e «teatrale» del rito cattolico collettivo: «Parola del Signore». Sono solo alcuni dei motivi che formano Il vento del cielo, un dramma di Emlyn Williams, attore e drammaturgo gallese, presentato, come di consueto in «prima» assoluta per l'Italia, alla 42a Festa del Teatro, a San Miniato, dall'Istituto del Dramma popolare. Un testo che ha risposto, ancora una volta, all'ambiziosa e rigida impostazione di questa istituzione teatrale: un dramma spirituale che, senza una vocazione sacrale, rappresenti il tormento dell'uomo, credente o no, verso la verità.
Il vento del cielo è un Vangelo trasferito nel diciannovesimo secolo: si è appena conclusa la sanguinosa guerra di Crimea e nel villaggio gallese di Blestin il dolore si somma a quello, di pochi anni più antico, per la scomparsa in mare, in una tempesta, di tutti i giovani del paese.
I primi segnali di una epidemia di colera concorrono a stringere la piccola comunità in una atmosfera mortale. È un bambino di 14 anni, figlio di una popolana, a riportare la serenità a Blestin, facendo rinascere la musica e il canto, guarendo i malati di colera, resuscitando un giovane e pagando, con la sua vita, il servizio «reso al Padre» e agli uomini. La sua presenza sconvolge la vita di coloro che gli sono più vicini, a cominciare da un impresario di circo, giunto a Blestin per scritturare il «nano che fa scaturire la musica» di cui ha sentito parlare e che diventerà il primo apostolo del nuovo Messia.
Il regista dello spettacolo, Franco Meroni, che con padre Marco Bongioanni ha curato la traduzione e l'adattamento del testo, ha scelto con coerenza di esaltare questa progressione verso la felicità, questa «rivelazione» di verità. Una suggestione accompagnata dalla scenografia di Stefano Pace, le luci, le musiche di Luciano Bettarini. Meroni ha dichiarato apertamente la sovrapposizione dei personaggi al Vangelo, dall'apparizione del giovane Messia (Mattia Cominotto), alla madre Bet, al proprietario del circo Ambrose Ellis, che come San Pietro, tradirà il suo Cristo, prima di diventare il suo primo apostolo.
Certo il testo di William tradisce più di una incertezza ed una costruzione in cui tutto il dialogo è sacrificato all'armonia «finale», ma il nucleo del dramma (rappresentato per la prima volta a Londra nel 1945) mantiene una efficacia suggestiva e struggente. Sobria ed intelligente è apparsa la mano del regista Meroni che ha impresso al gioco spettacolare un ritmo crescente, che ha diviso le situazioni in quadri, snellendo il procedere narrativo, e affidando alla mimica straordinaria di Arnoldo Foà l'impegnativo compito di fare da contrappunto all'intera struttura drammatica. Foà era infatti impegnato nel ruolo del direttore del circo, uno scettico nobile decaduto che, imperturbabile agli straordinari avvenimenti cui assiste, li annota, diligente e disincantato, in attesa di nuove e più razionali prove.
Di grande efficacia la prova offerta da Aldo Reggiani, cinico e beffardo Ambrose Ellis, sconvolto dalla rivelazione. Gli altri ruoli erano interpretati da Nunzia Greco (la vedova Perry nella cui casa si svolge l'azione), Angela Cardile (l'efficace madre del ragazzo), Luciano Fino (il vecchio portavoce del villaggio), Paola Bacchetti (l'amante di Ellis).
Il Secolo d'Italia 17 luglio 1988
|