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La recensione di Paolo Emilio Poesio
 

Il dramma del rimorso e del coraggio
La tredicesima festa del teatro è destinata a rimanere fra le più importanti nella storia non breve dell'Istituto del dramma popolare. Una storia che, tuttavia, è di per sé facile ricostruire attraverso il ricordo di spettacoli di primissimo ordine: quello che all'inizio pareva dovesse essere un fatto «locale» ha finito, nel tempo, col divenire un fatto di portata ben maggiore. Così che oggi questa «festa del teatro» dedicata a San Genesio non appartiene più soltanto a San Miniato ma a tutti coloro — senza distinzione di latitudine — che della scena di prosa seguono con trepidante amore le sorti.
La scelta dell'opera, il rigore della regia, il cast eccellente e la suggestione della scenografia hanno concorso a un successo pieno, schietto, aperto. Tanto più notevole, in quanto la fortuna del teatro di Eliot in Italia si riduce, tutto sommato, al ripetutissimo e risaputissimo Assassinio nella cattedrale.
Eliot, autore «difficile», dice il pubblico. Ma davanti a questo Grande statista (o, se preferite attenervi alla traduzione letterale del titolo Il vecchio statista, The elder statesman) anche l'accusa tremenda (tremenda in rapporto a un pubblico che diffida delle difficoltà e le identifica con la noia, tout court) cade da sola. La storia di lord Claverton, protagonista del dramma, è una storia intima, è vero: non offre gran cosa alla spettacolarità degli avvenimenti. Ma quanta palpitante autenticità di sentimenti, quale potenza di suggerimenti in questa vicenda scarna e scabra, dolente e penosa.
Dramma del rimorso e della pacificazione, del passato che tormenta e del presente che esige coraggio, della solitudine che uccide e che rivivifica: dramma umano, soprattutto, nel quale i simboli trasparentissimi acquistano una dimensione precisa.
«Cosa è questo io in noi, questo silenzioso osservatore, critico severo e muto, che può terrorizzarci e spingerci ad azioni futili e, alla fine, giudicarci con ancor maggiore severità per gli errori verso i quali ci hanno guidato proprio i suoi rimproveri?». Ci sembra qui sia rintracciabile la tematica sotterranea del dramma. Lord Claverton si è costruito la vita, ricacciando nell'ombra quelli che non sono neppure «delitti e restano al di fuori di tutto ciò che compete alla legge: mancanze passeggere, aberrazioni irriflessive, capitolazioni incaute, impulsi inspiegabili, momenti di cui ci pentiamo il momento successivo, episodi che tentiamo di nascondere al mondo». E adesso, alla fine della sua carriera politica, alla fine della sua vita fisica, Lord Claverton è costretto a guardare in faccia il passato, senza mezzi termini: appaiono i due «fantasmi», ma ben reali, ben veri, che rivangano senza pietà l'antefatto di una esistenza mitizzatasi attraverso il tempo.
E, come non bastasse, accanto ai «fantasmi» si schiera il figlio di Claverton, Michael. Anch'egli ha qualcosa da rimproverare al padre: ha da metterlo sotto accusa anche lui, che dal padre non ha avuto se non facilitazioni e aiuto.
Resterebbe, dunque, a Lord Claverton un solo punto di appoggio: la candida e appassionata Monica, la figlia che ha sinora rinunciato alle nozze o per lo meno le ha procrastinate per non lasciare solo il babbo, per sottrarlo al mistero di una solitudine che non da quiete. Resta, all'uomo sconfitto dal passato, questa esile luce di amore: Monica guarda al grande statista come si guarda al modello di ogni virtù, di ogni qualità. Tanto più dunque, per ritrovare pace, per riconciliare se stesso con se stesso, per potere affrontare senza timori, senza remore il misterioso passo che ha nome morte, Claverton è costretto a confessarsi: è costretto a distruggere l'immagine che Monica si è fatta di lui, è costretto a denudarsi per intero. «Ti ho fatto la mia confessione, Monica. È il primo passo verso la mia libertà» dirà lo statista subito dopo, aggiungendo: «Confessare il peccato che nessuno considera tale è ancora più difficile che confessare il delitto che tutti possono valutare. Perché il delitto è tale in relazione alla legge e il peccato è tale in relazione al peccatore».
Da questi brevi rapidi cenni, che non intendono certo se non suggerire al lettore taluni spunti dell'opera di Eliot e non vogliono — sarebbe curiosa pretesa davvero — riassumere in qualche modo i tre atti, appare chiaro, ci sembra, la ricchezza dei fermenti che circolano in queste pagine. Si tratta di proposizioni alle quali nessuno, quale che sia la sua fede, quale che sia la sua credenza, può sottrarsi. Eliot ha messo le mani in una materia sanguigna, calda e fremente. Una materia che è nostra perché in noi si agita e prende corpo.
Né varrebbe la pena, qui, di accennare ancora alla ricchezza di notazioni critiche di una società ben definita (basti pensare alle osservazioni caustiche del «senor Gomez», il primo dei due «fantasmi», a proposito della politica). Notazioni in punta di penna, acute e attente, brucianti più di quel che non sembri a prima vista.
Di tutti questi valori, di tutta questa forza di pensiero, Luigi Squarzina è stato, come regista, interprete ideale. Condotto il dramma sul piano di un'attendibilità quotidiana, «terrestre» (ci sia lecito il termine), Squarzina non ha perciò rinunciato a sottolineare di battuta in battuta tutte le significazioni intcriori dell'opera. Tutto il dialogo (né qui entreremo nel merito della traduzione di Desideria Pasolini, giacché confessiamo di non conoscere il testo originale e siamo quindi nell'impossibilità di stabilire paralleli) ha vibrato di una forza contenuta, di una lucida ansia fino alla lunga assorta pausa finale.
Certo, interpreti migliori Squarzina non poteva scegliere. Ivo Garrani ha dato a lord Claverton la forza della sua recitazione così equilibrata, così schiva di effetti facili. Giovanile sessantenne all'inizio del dramma, Garrani riesce a tradurre l'appesantimento fisico e morale, provocato dall'angoscia nello statista. Quando, al termine del terzo atto, si allontana verso la morte, non è più lo stesso burbero baldanzoso individuo che abbiamo visto apparire in scena al principio del primo atto. Una parabola difficilissima, resa con mezzi eccezionali.
Altrettanto dicasi della lievità con la quale Laura Adani ha affrontato e risolto il «fantasma» femminile: una recitazione trasparente, tutta sospesa su toni bellissimi, capaci di mantenere  in  equilibrio   realtà  e  fantasia.  Un  gioiello.
Quanto a Gianrico Tedeschi, temiamo di ripeterci asserendo che da questo attore non si hanno che sorprese sempre più gradevoli. Il suo «senor Gomez» è un lavoro di cesello, sottilmente aggressivo, sottilmente amaro, vinto e vincitore (ma che dolente vittoria, la sua).
Michael ha avuto per interprete Corrado Pani: un Pani liberato da certe cadenze che gli erano restate all'indomani dello Sguardo dal ponte e tornato ad essere di una naturale asprezza, scontentezza, a tratti fanciullesca, a tratti pronfondamente matura. Debuttante, ancora un po' acerba, ma piena di promesse, Giovanna Pellizzi: che ha saputo aggirare i numerosi scogli con vera intelligenza. Asciutto, compassato, britannicamente calcolato e raggelato Franco Graziosi. Impegnata in una incandescente parte di petulante mistress, Giusi Dandolo.
Magnifica la scenografia di Luciano Damiani che ha sfruttato le risorse del luogo con una chiarezza di vedute e una sensibilità giustamente premiate dal lungo applauso del pubblico. La sua «carrellata» sulla casa di cura inglese e sul parco circostante resterà nel ricordo di tutti, per sempre.
Accoglienze calorosissime da parte di un pubblico folto e attento. E da stasera la serie delle repliche.
Paolo Emilio Poesio, Nazione Sera, Firenze, 30 Luglio 1959




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