Graham Greene riletto in chiave picaresca da Giancarlo Sbragia
Il potere e la gloria di Graham Greene, come sanno i suoi lettori e spettatori da mezzo secolo a questa parte, mette di fronte un prete e un ufficiale rivoluzionario, in un paese e in un tempo di persecuzione antireligiosa di stampo marxista. La particolarità del romanzo, presto divenuto dramma e film, stava nel fatto che il sacerdote era un uomo «indegno» secondo i canoni morali ordinari: ubriacone, pavido, fornicatore; mentre il rivoluzionario, dietro lo stereotipo dell'inflessibilità ideologica, celava un autentico rigore morale.
Riconosciamo qui una precisa tipologia letteraria fiorita intorno agli anni tra il Trenta e il Cinquanta. Scrittori come Maurine, Bernanos e lo stesso Greene (cui doveva poco dopo seguire, nel nostro teatro, Diego Fabbri) delineavano i tratti anomali di un cattolicesimo contemporaneo mettendo l'accento, per così dire, sulla fecondità del male e del peccato. Il problema della presenza del male nel mondo, che aveva affaticato teologi e moralisti, veniva riformulato in termini di immaginazione. Dal male inteso come deviazione dalla norma poteva anche germinare la fede: una fede più inquieta e travagliata, ma anche più sostanziosa. L'ipotesi, a lungo praticata da narratori e drammaturghi, di una fede rovesciata e capace di mettere radici anche nel fango e nell'abiezione, oggi può apparirci sbiadita. Lunga è la schiera di personaggi di preti trasgressivi o corrotti, prostitute sensibili, ladri illuminati, ateisti onesti, piccolo esercito intento alla abolizione del dissidio tra bene e male intesi come campi facilmente e nettamente identificabili. E quasi scontato appare ormai (ma sarà colpa del nostro sguardo disingannato?) che la coscienza del male vissuto e sofferto fino in fondo possa esser più fruttifera di una astratta e programmatica ricerca del bene.
Con qualche ruga di questo tipo, il prete di Greene è uno di questi peccatori che sappiamo destinati a giocare un ruolo più importante di molti giusti. E' braccato dai rivoluzionari, ma continua a cercar vino per le sue improbabili messe, causa arresti e fucilazioni con le sue clandestine e talvolta improvvide apparizioni, potrebbe fuggire ma invece rimane con tutte le sue paure e l'alcol usato per sedarle. Quando sarà di fronte al suo antagonista in una classica situazione di confronto ad armi impari non ha nessuna superiorità da far valere, se non la confessata paura della morte e il rifiuto di quell'equivalente dell'abiura che è il matrimonio, unica scappatoia concessa ai perseguitati. Andrà incontro alla morte non da martire ma da uomo, con l'unica patente di nobiltà di un'autoconfessione nella quale riconosce di aver agito così anche per orgoglio.
Quando Greene scrisse il suo romanzo eravamo in pieno stalinismo, i rapporti fra potere temporale e «gloria» spirituale erano al peggio, guerra e intolleranza seminavano ovunque le loro distruzioni, le rivoluzioni divoravano qua e là i loro figli. Oggi che viviamo epoche di riconciliazioni (vere o finte che siano) e soprattutto di ambigui compromessi, è fatale che contrapposizioni di muro contro muro come quella che Greene propone ci appaiano quanto meno distanziate.
E' perciò naturale che la regia di Giancarlo Sbragia, nel riportare il dramma di Greene a San Miniato trentacinque anni dopo una memorabile edizione diretta da Luigi Squarzina e interpretata da Araldo Tieri, abbia puntato più sulla «fiction» avventurosa e picaresca che non su una impostazione, oggi improbabile, di tipo argomentativo. La stessa interpretazione che Sbragia dà del prete indegno è quella di un «vagabondo di Dio» che sente su di sé lo stato sacerdotale come un marchio a fuoco piuttosto che come una vocazione: questo versante del personaggio Sbragia lo esprime con sagacia, finanche con una recitazione frastagliata, con le parole che si frantumano o si spengono in bocca. E perfetto nel suo rigorismo gelido, ma illuminato da spiragli di umanità che gli consentono di fronteggiare anche moralmente l'avversario, è Mattia Sbragia nel personaggio del rivoluzionario puro.
Impeccabile come sempre la caratterizzazione di un profittatore disegnata da Camillo Milli, e poi uno stuolo di interpreti tra i quali lo spazio ci consente di citare solo Elio Veller, Pino Michienzi, Margherita Baffico, Giancarlo Cortesi. Suggestivo e funzionale ad un tempo è l'impianto scenico girevole che, trentacinque anni dopo, porta la stessa firma di Gianni Polidori.
RENZO TIAN, Il Messaggero, 22 luglio 1991
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