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Il Messaggero - La recensione di Renzo Tian
 

Com'è normale quel miracolo
Il moderno teatro di ispirazione religiosa si serve volentieri del meccanismo della «suspense», se non proprio del poliziesco. Forse questo accade perché, nel gioco dei rapporti tra naturale e soprannaturale, l'equivalente del colpo di scena è un «giallo» sublime: il miracolo. A un certo punto la sequenza razionale degli eventi s'interrompe e lascia il posto a quello squarcio netto che è il miracolo come evento inesplicabile. Certo, il miracolo può essere usato in diversi modi: per lo più è uno scioglimento provvidenziale, la prova dell'esistenza della divinità. Ma può anche essere ricondotto nella sfera di un avvenimento «normale», non necessariamente salvifico.
E' quel che accade ne Il capanno degli attrezzi di Graham Greene, un dramma intrigante e serrato che comparve in Italia una trentina d'anni or sono in una messinscena non adeguata alle sue qualità e ora torna sul colle di San Miniato con la regia di Sandro Bolchi. Nell'antefatto della vicenda c'è un evento misterioso e celato che solo più tardi sapremo essere qualcosa che somiglia a un miracolo. Trent'anni prima, al figlio quattordicenne di uno scrittore imbevuto dei dogmi di un ateismo scientista, nel capanno degli attrezzi di una villa di campagna, era accaduto qualcosa di tremendo, e poi subito dimenticato, che aveva segnato la sua vita. Oggi il ragazzo di allora è un uomo attratto dal nulla, marcato da una sorta di indifferenza e refrattarietà a ogni forma di rapporto affettivo.
La rivelazione, il colpo di scena, avviene alla fine del dramma. In occasione della morte del padre egli torna alla casa della quale era stato tenuto lontano. E dopo una faticosa indagine svolta con la collaborazione di una intraprendente nipotina, James verrà a sapere che cosa era accaduto trent'ani prima nel capanno degli attrezzi: aveva tentato di impiccarsi dopo una scenata col padre, era caduto in un coma che appariva irreversibile e non aveva poi serbato alcuna memoria dell'incidente. Unici testimoni, un vecchio giardiniere poi licenziato e uno zio sacerdote in aspro dissidio col fratello scientista. Proprio con questo zio, oggi confinato in una parrocchia di campagna e affondato nell'alcolismo con cui cerca di medicare la perdita della fede, James completerà la versione dei fatti: negli attimi in cui egli giaceva apparentemente privo di vita il giardiniere aveva tentato la respirazione artificiale e lo zio aveva pregato affinché la vita venisse comunque conservata al ragazzo offrendo in cambio tutto ciò che lui, prete, possedeva di più prezioso: la fede.
Un miracolo? Greene non ci autorizza a crederlo, anzi. Dice che, se miracolo c'è stato, si è trattato di un miracolo «normale». Come dire che la vita, nella sua essenza, già contiene i miracoli, e questi non sono dunque uno strappo del suo tessuto, ma semmai una maglia più forte. Del resto, la scena più alta e forte del dramma di Greene è proprio la visita che James fa al prete caduto nell'abiezione. In lui, nonostante la perdita della fede piena, continua l'esercizio del ministero sacro, proprio come accadeva al prete vile e peccatore de Il potere e la gloria. E quella stanza fatiscente dove gli armadi dei sacri arredi servono a nascondere alla governante le bottiglie di whisky è per James proprio il luogo più adatto per scoprire le tracce (anzi, le orme) di un Dio assente ma percepibile. Il miracolo vero, semmai, è quello di un «credo quia absens».
Il dramma di Greene è tutto su questa linea forte di una esperienza religiosa vista dall'esterno, dedotta piuttosto che rivelata, annidata negli angoli meno edificanti dell'esistenza. In un recesso della piazza del Duomo di San Miniato, tra gli alberi scuri e le statue smozzicate di cui parla Greene e che qui trovavano una riproduzione naturale quanto suggestiva, Sandro Bolchi ha tornito quel dramma (basandosi su una nitida e agile versione di Alvise Sapori) una messinscena del conflitto familiare piuttosto che sul meccanismo poliziesco esterno. Tenuto egualmente distante dall'enfasi tragica e dal congegno narrativo, il dramma di Greene ha rivelato una persistente saldezza dell'impianto teatrale. Ne sono stati gli interpreti principali Carlo Simoni, il cui James, nella ricerca della chiave passata del suo malessere presente, sembrava ricordarsi di essere anche un po' Edipo e un po' Amleto, Mario Maranzana che nella parte determinante del sacerdote degradato ha costruito un personaggio di grande equilibrio e spessore umano, e Margherita Guzzinati nelle vesti della moglie separata di James. Tutti sono stati applauditi insieme con Bolchi, con particolare calore.

ENZO TIAN, Il Messaggero 18 luglio 1987




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