Quell'antica pazienza è anche rivolta
E' fatale che l'occhio dello spettatore corra subito a quel nome in locandina: l'autore del dramma che si da quest'anno a cura dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato è Karol Wojtyla, il cui nome è impresso a caratteri tipografici minuti, di non grande rilievo. E' fatale, perché sicuramente da molto tempo (probabilmente dal Rinascimento) il nome di un Papa non coincide con quello di un autore teatrale. Sei anni fa fu rappresentato in radio e a teatro, una commedia di Wojtyla giovane: adesso è la volta di un titolo che ci rimanda addirittura a un Wojtyla men che ventenne. Nel 1940 il futuro Papa (allora nemmeno sacerdote, ma soltanto studente e appassionato di arte teatrale) scrisse un dramma intitolato Giobbe. Ed è facile immaginare che cosa lo studente di Cracovia cercasse, nel biblico emblema dell'uomo giusto colpito dalle più atroci sventure. Ma che cosa, esattamente, noi possiamo oggi cercare in un testo simile, 45 anni dopo? E' inevitabile che lo spettatore cerchi di leggere fra le righe: che si avvicini a questo Giobbe come a un documento biografico, uno spiraglio in più per ricostruire la lontana adolescenza dì un Capo. Ma rischia di esser deluso: perché il lavoro giovanile è poco più di una diligente parafrasi della pagina biblica, di quella edificante anche se difficilmente esplicabile storia dell'uomo prospero e probo sul quale Jahvé fa piovere una inesorabile raffica di sciagure. L'assurdo sfasamento tra la virtù di Giobbe e i castighi con la quale vien retribuita può avere più di una interpretazione: da quella, più edificante, della rassegnazione totale che si deve offrire alla suprema saggezza divina, a quella della speranza che può accendersi al di là
e al di sopra delle sofferenze. Il Giobbe di Wojtyla giovane segue con quasi totale aderenza il binario biblico. Se ha un connotato proprio, è che la voce del protagonista, quando chiede il motivo del divino accanimento, suona forse più alta e vibrata di quel che non accada nel sacro testo. L'autore, in quella Quaresima del 1940, pensava certo a tutti i Giobbe che vedeva soffrirgli intorno senza peccato; e cercava anche una risposta alla domanda straziata che l'infelice faceva salire al cielo: « Perché lo fa? ». La risposta che viene abbozzata nel dramma giovanile è solo una risposta di fede: il Giobbe wojtyliano fa intendere, per bocca di un candido profeta, che la sofferenza ingiusta patita da quel giusto può esser veduta come la preparazione di un altro innocente perseguitato, e che dunque a Giobbe potrebb'essere capitata la ventura di essere il battistrada di Cristo. E il dramma, dopo aver proceduto in bilico tra i meccanismi di un Fato precristiano e quelli di una parabola evangelica, approda a una edificante conclusione ai piedi della Croce.
Il disperato grido del protagonista: « Urla l'anima mia dentro di me », non può tuttavia trovare una risposta drammaturgica oltre che religiosa. Anche perché, nella messinscena scrupolosamente curata da Aleksandra Kurczab (autrice anche di uno stringato adattamento) con l'autorevole supervisione di Krysztof Zanussi, la vicenda biblica è spostata in epoca moderna, e tra gli esempi di « giusti » su cui si abbattono inusitate violenze sono silenziosamente ma vigorosamente citati episodi della nostra cronaca: l'uccisione di Aldo Moro, le torture inflitte a Padre Popielusko, le seviziate del Circeo. Applicata a questi riconoscibili e ancor brucianti personaggi, la conclusione salvifica rischia di apparire drammaturgicamente insufficiente. Del resto, per far diventare spettacolo un testo così legato alla pagina e alla parola letteraria, non c'era altra strada che far lavorate la fabbrica delle visioni. Qui Zanussi e la Kurczab hanno accumulato invenzioni. La storia di Giobbe, collocata nella piazza del Seminario, è diventata una specie di tela vergine sulla quale irrompevano di prepotenza immagini clamorose: un turbine di vento che spazza un'entrata della piazza trascinando polvere e detriti, una cascata d'acqua che scroscia con foga su una ripida scalinata, fuochi di bengala che sfiammano su una torre o sotto un arco, un vero anche se circoscritto incendio che fa ardere le porte della casa di Giobbe, motociclisti che irrompono in piazza, persino una « R 4 » con un corpo umano nel bagagliaio. Poche volte un luogo architettonico è stato investito in modo così totale e trasformato da spazio reale in spazio immaginario. Ed è vero che le esperienze cinematografiche di Zanussi segnano in parte questo spettacolo: ma bisogna
anche dire che esso vive dell'uso di materiali elementari, « poveri », acqua, terra, fuoco, aria, capaci di esprimere assai più di un macchinoso impianto scenografico. La piazza era utilizzata nel senso della larghezza, su un frontale di ampiezza inusitata. E questo vasto orizzonte da « cinemascope » d'autore era percorso e animato da tutti gli attori, a cominciare da Ugo Pagliai che faceva uscire la disperazione e la rivolta di Giobbe dal guscio di un dignitoso perbenismo iniziale e da Paola Gassman che dava nitore e candore alla figura di un angelo profetizzante. Musiche di Tony Cucchiara, da lui stesso cantate e accompagnate alla chitarra, aprivano e chiudevano, a guisa di sigla, lo spettacolo. Ma tra immagini, suoni e luci, l'ultima parola rimaneva pur sempre a quella domanda dolorosa, a quel « perché? » urlato e destinato a non trovare una risposta diretta.
Renzo Tian Il Messaggero, Roma, 27 Luglio 1985
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