Barabba
La cosa forse più importante di questa XXXa Festa del Teatro samminiatese è stato l'impegno preso da Don Luciano Marruca - succeduto nella direzione dell'Istituto del Dramma Popolare a padre Valentino Davanzati - di far finalmente uscire in un circuito qualunque lo spettacolo annuale che finora, dopo essere costato un bel po' di soldi, si bruciava davanti a un pubblico 'sicuro, senza rischi, senza fantasia, nella negazione più completa perfino della parabola del Buon Pastore.
Il Trentennale dell'Istituto ha dunque imposto qualche ripensamento: che ha portato, per esempio, alla decisione suddetta, fino a ipotizzare almeno centomila spettatori per questo Barabba di Michel De Ghelderode scelto per collaudare la prima avventura fuori del bunker crociato quale, in partibus infidelium, aveva finito per considerarsi l'Istituto del Dramma Popolare che statutariamente persegue un repertorio religioso - anche se qualche malevolo raramente vi ha trovato componenti religiose e, ancor meno, componenti popolari.
Il fatto è che, a onor del vero, la Toscana non è una terra facile, tanto più che quella Regione si è mossa con estrema sollecitudine proprio nel campo del teatro con un suo decentramento abile e articolato, ed è ora fra le primis-sime nell'assalto alla roccaforte della RAI/TV, perché le Regioni e non le radio-libere siano l'interlocutore privilegiato dell'azienda di stato per una riforma di quest'ultima. Va detto infine che trent'anni di regime democristiano, mentre hanno impoverito negli italiani ogni senso correttamente laico delio stato, non hanno affatto contribuito a far nascere o arricchire almeno la tensione o il dibattito religioso nel nostro paese: sicché lo stesso reperimento di opere di un certo tipo per San Miniato (che già avviene per tramiti impiegabilmente occulti e casuali) è spesso stato il vero e unico dramma sacro che sconvolgeva gli organizzatori.
Se però, malgrado questi reali impedimenti, si è giunti a decidere la sortita, ci auguriamo che essa non sia la mossa disperata di assediati a corto di viveri, ma una franca e reale volontà di verifica e di confronto con una cultura diversamente sintonizzata, senza battibecchi e dispetti del tipo « Ma noi l'abbiam più bello, Madama Dorè ». E tanto ci auguriamo a vantaggio di tutti, perché a un cristianesimo rozzo e imperfetto spesso corrisponde un laicismo altrettanto rozzo e imperfetto, diremmo proprio « clericale » qual è in effetti assai spesso il laicismo nel nostro paese.
E come testa di ponte, questo Barabba di De Ghelderode tradotto da Pier Benedetto Bertoli, potrà anche funzionare - storia di un ladrone che, nella sua brutale rivolta contro la società, finisce per capire come Gesù sia il suo naturale ideologo, non a caso considerato, dal Sistema di allora, ben più pericoloso di lui. Da qui, la decisione di Barabba di continuare anche in nome del Cristo la lotta contro l'ingiustizia, ma non da profeta disarmato, bensì esigendo occhio per occhio, dente per dente. La Toscana contadina (e non soltanto questa) è piena di leggende simili, d'attese millenaristiche, di buoni briganti a metà strada fra Bakunin, Roibin Hood e il Santo Patrono: e lo diciamo ben fuori d'ogni ironia. Basterebbe pensare alla vita tragica e intensa che ebbe sull'Armata, alla fine del secolo scorso, Davide Lazzaretti, il « barrocciaio di Dio ».
Vogliamo dire invece che questo Barabba può trovare credito e consentimento anche se ci appare un po' in ritardo con quanto, sulla medesima linea, è stato fatto da tempo, fuori da San Miniato, nella stessa Toscana. Taluno potrebbe poi anche osservare che la scelta di un discorso non integralmente cristiano sia il frutto di un calcolo dei tempi e dei modi più opportuni e interlocutori con un pubblico « difficile » come quello di gran parte della regione, rinunciando cioè allo scontro frontale.
A questa necessità di politicizzazione e di semplificazione iterativa e didascalica dell'intero discorso ci pare abbia aderito anche la regia di José Quaglio, con cartelli e striscioni contestatori, con mitra al posto di lance e grattacieli al posto di capanne, e — infine — con una recitazione indifferenziata su toni, spesso, da melodramma o, se si vuole, da ballata popolare: di quelle cantate da povera gente vicino a grandi camini, intorno a un'impossibile giustizia per la quale si erano battuti campioni diversi ma ugualmente poveri e sfortunati come Cristo e Barabba. Ultimo — ma non come importanza — motivo d'interesse, ci sembra stata l'ipotesi, riproposta da don Luciano Mar-rucci, di recuperare il « piano » a suo tempo elaborato da Orazio Costa per far sì che l'attività dell'Istituto del Dramma Popolare non esaurisca la sua presenza e la sua giustificazione in questo appuntamento annuale.
Giorgio Fontanelli Sipario, Lecco, Ottobre 1976
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