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La recensione di Paolo Lucchesini
 

La recensione

Un grido dal cuore dell' Europa

Il purim è una festa ebraica che si celebra ogni anno, verso la fine di febbraio. Ricorda come gli ebrei in esilio si salvarono dallo sterminio comandato da Aman, ministro del re Assuero: un giorno lieto, quindi, riservato alla trasgressione, con banchetti, libagioni, spettacoli. Di un purim tragico, quello del 25 febbraio 1649 in un villaggio dell'Europa orientale, invece, recita Il processo di Shamgorod di Elie Wiesel, rappresentato in prima italiana in occasione della trentasettesima festa del teatro di San Miniato, reale anticipazione, sotto un cielo minaccioso, della prossima stagione di prosa.
La scelta del testo di Wiesel ed il ritorno ad un debutto quasi settembrino, ormai abbandonata la tradizione pluridecennale dello spettacolo a fine luglio, hanno costituito una svolta non indifferente per l'Istituto del dramma popolare, ovvero un distacco, forse fortunatamente occasionale, dalla linea italiana che aveva contraddistinto — e in alcuni casi travagliato — le precedenti sei edizioni del festival e il rinnovarsi di un tentativo, già riuscito con Al Dio ignoto di Fabbri del 1980, di non esaurire la produzione in un numero limitato di recite samminiatesi e in pochissime altre piazze.
Fondamentale — e coraggiosa — soprattutto la scelta di Wiesel, autore ebraico, accolto con rispetto ed amore nella cittadella cattolica del teatro nel segno di un ecumenismo culturale che ha sempre improntato la politica dell'Istituto samminiatese; felice, inoltre, per aver introdotto in Italia un autore non ancora conosciuto al grande pubblico, rappresentante non secondario della grande letteratura ebraica del nostro secolo.
Il processo di Shamgorod è una delle due opere drammatiche di Wiesel (l'altra è Zalmèn ou la Folte de Dieu, precedente, rappresentata con successo anni fa a Parigi), una tessera, diremmo, stando a quanto ha amabilmente spiegato nel corso del rituale incontro che precede lo spettacolo, di un sofferto mosaico che lo scrittore va componendo per fissare un'immagine dell'olocausto del popolo ebreo di cui Wiesel, giovanissimo, è stato testimone nei campi di sterminio di Auschwitz e di Buchenwald. L'opera di Wiesel è pertanto il risultato di un conflitto interno lacerante, in cui il ritegno supremo di non rivelare le atrocità di cui il suo popolo è stato vittima e l'esigenza di affratellare — e non dividere — nella sofferenza, si avverte ancora furiosamente. Accade anche in questo Processo di Shamgorod che vuole riferire di un episodio realmente accaduto ad Auschwitz e del quale Wiesel fu spettatore: tre rabbini intentarono un processo a Dio che fu giudicato per il massacro dei suoi figli. Ma Wiesel, come i suoi personaggi, non vuole testimoniare direttamente, esibire il dolore e lo strazio della persecuzione e delle imperscrutabili vie del suo Signore. Si affida alla fantasia, alla rappresentazione, al teatro nel teatro (la taverna di Shamgorod non ricorda forse il palcoscenico dai Sei personaggi e l'evocazione del demoniaco. Sam non si realizza forse in un clima di tensione simile a quello in cui appare madama Pace?) perché il discorso si allarghi, esuli dall'ambito storico della tragedia ebraica, assuma dimensioni e caratteri universali, attuali.
Il processo di Wiesel è espressione di un purim quasi un carnevale affidato a tre attori girovaghi da un taverniere, superstite sbigottito, insieme con la figlia, che ha subito le più atroci violenze, di una comunità ebraica annientata da un pogrom. Si distribuiscono le parti, ma non si trova chi voglia assumersi l'onere di difensore di Dio. Sarà il misterioso Sam, apparso dal nulla, a sostenere il ruolo. Il purim si celebrerà, il processo si farà atto di libertà estrema che conduce i superstiti di una comunità verso la catastrofe. Sam rivelerà solo alla fine la sua vera natura. E' il colpo di scena che sigilla l'opera di Wdesel, preludendo all'ennesimo massacro, annunciato da un furioso scampanio.
Esempio luminoso di teatro di parola, Il processo di Shamgorod alla lettura, nella eccellente traduzione dal francese di Daniel Vogelmann, prometteva tensioni, atmosfere, pretesti teatrali non indifferenti, offerti da un plot farsesco che contrappunta l'incedere, per rivelazioni estorte, della tragedia.
Roberto Guicciardini, che ha diretto lo spettacolo, ha tenuto solo in parte conto di questi elementi qualificanti presenti nel testo, sfumando tutto quanto di grottesco (o ironico) potevano suggerire personaggi e situazioni, e facendo imboccare al Processo il binario della colloquialità, sia pure con i dovuti picchi d'espressione. E' stata così valorizzata la parola, e scapito dell'azione che, invece, percorre e tende disperatamente il testo. Nel suo indiscutibile rigore, perciò, lo spettacolo ha accusato, in alcune fasi, una certa stanchezza, che forse potrà attenuarsi con il procedere delle repliche.
La compagine degli interpreti ha risposto con professionalità all'impegno con il testo di Wiesel. Carlo Hintermann è stato un orgoglioso taverniere Berish, Warner Bentivegna, un lucidissimo perfido Sam, Carlo Bagno un tenero Mendel, capo del drappello di comici forte anche di Virginio Zernitz ed Edoardo Siravo. Anna Teresa Rossini ha tratteggiato con vigore la figura della serva cristiana Maria, Giorgio Naddi quella del pope umano faccendiere, Michela Pavia quella della giovanissima vittima Hanna. Luminosa la scena di Piero Guicciardini: una fuga di nude architravi; coloriti i costumi di Luisa Roberto.
Il pubblico  dell'anteprima ha applaudito con  calore.

Paolo Lucchesini, La Nazione, Firenze, 31 Agosto 1983




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