La recensione
Un testo "raro", che ha il sapore di stagioni lontane
A celebrare la sedicesima festa del teatro, a San Miniato, è andato in scena ieri sera, sul sagrato del SS. Crocifisso, il «mistero» in sei quadri di Oscar Milosz, "Miguel Manara". C'era un posto vuoto, ieri sera nelle gradinate erette dinanzi alla chiesa barocca tramutata in fondale di eccezione. E quel posto vuoto chiunque da sedici anni a questa parte abbia avuto ragione o occasione di recarsi a San Miniato per la «festa del teatro» sapeva bene di chi era.
L'assente lo abbiamo sentito ricordare nel pomeriggio di ieri stesso: Achille Fiocco ne ha parlato con la commozione che si prova sempre quando si rievoca una figura nobile, una figura generosa. E Giuseppe Gazzini, che all'Istituto del dramma popolare dette vita e dedicò tanta parte della sua passione di uomo di teatro e di credente, era e nobile e generoso. Dalle parole dell'oratore l'immagine cara è tornata a balzare palpitante nella memoria dell'uditorio: e la lapide dello scultore Quinto Martini, inaugurata nella chiesa di San Francesco, non farà che prolungare nel tempo il ricordo di chi dette a San Miniato e al teatro italiano un organismo vivo, battagliero, capace ancora di accendere quel dialogo, quella discussione che sono alla base di ogni iniziativa proficua.
Ecco perché dicevamo che c'era un posto vuoto ieri sera nelle tribune del pubblico, al momento in cui i riflettori hanno illuminato la scena creata da Mario Chiari nell'ambito della struttura monumentale della chiesa del SS. Crocifisso. Al momento in cui si è iniziato il dramma, la celebrazione dell'avvocato Gazzini poteva dirsi completa nell'unico modo, pensiamo, che gli sarebbe tornato grato.
Anche la scelta del testo, forse, non poteva essere più appropriata. Un testo «raro», che ha il sapore fresco e appassito insieme di stagioni lontane, quando delle due guerre mondiali la prima era appena all'inizio e non lasciava presagire la sua vera portata.
Parigi, 1915. È un riferimento che non bisogna dimenticare ascoltando il Miguel Manara di Milosz. Parigi 1915 indica il luogo e la data di stampa di questa opera liricamente appassionata, profondamente sentita. E Parigi 1915 vuoi dire anche la Francia di Peguy e di Ghéon, la Francia del primo Copeau, la Francia irradiatrice di civiltà e suscitatrice di intelligenze. Milosz era lituano, ma doveva avere respirato a fondo, essersi imbevuto tutto di un clima intellettuale particolarissimo se è vero, come è vero, che questo suo «mistero» vibra — oltre che di un profondo senso religioso — proprio di quel miscuglio di lirismo, di simbolismo, di preziosismo che caratterizzano tanta parte della produzione intellettuale dell'epoca.
La storia di Miguel Manara è cosi semplice, che non apparirebbe possibile, a prima vista, realizzarla scenicamente. Il caparbio peccatore — che, ancor giovane, a una svolta della vita, si accorge di essere sommerso dalla nausea di quanto è materia, di quanto è voluttà, di quanto è piacere spicciolo e passeggero — non può che redimersi al primo contatto con le fonti della purezza, non può che riscattarsi al primo incontro con le sorgenti della fede.
La sua storia è una storia edificante, da narrare secondo il sistema della «biblia pauperum», per quadri scarni, cioè. E lasciando alla parola il supremo compito di condurre allo spettatore il messaggio ideale dell'autore. Anche se la parola per Milosz voleva dire canto, voleva dire abbandono, voleva dire solennità messianica (e Claudel ci entra per qualcosa).
Indubbio, tuttavia, che il testo sia un testo di alta e pura nobiltà, pur se concepito in vista di una teatralità sui generis, aliena dal rispetto dei canoni tecnici che il palcoscenico esige. Indubbio, anche, che Milosz conosceva a perfezione la via per raggiungere e toccare la fantasia dello spettatore: basterebbero a dimostrarlo il primo quadro, il quarto e il quinto che anche ieri sera, alla prova della recitazione, sono riusciti di un'efficacia superba.
Mettere in scena un testo così è impresa tutt'altro che agevole. Orazio Costa Giovangigli vi si è accinto con quell'impegno che egli mette in tutta la sua fatica di regista: e ha concepito la vicenda (ambientata dall'autore nella Spagna seicentesca) come un alterno gioco fra la chiarità specchiante della fede e il tenebrore sotterraneo delle tentazioni.
La contrapposizione di Milosz — Spirito della Terra, Spirito del Gelo — nei cui limiti si compie la parabola dell'anima di Miguel, è stata intesa quasi con angoscia dal regista, che ha calcato la mano sull'insistenza di un barocchismo avvertibile in parte nel testo, ma che era piuttosto da combattere e contenere che non da sviluppare e pletorizzare.
Si prenda il terzo quadro, a esempio: il senso del macabro, la macchinosità stessa delle soluzioni sceniche, il rimbalzare notturno delle voci balbettanti come altrettante eco, finiscono con il provocare un senso di stanchezza, di rilassatezza che va a sfavore della parola, la diluisce, la svirilizza.
Contro questi lati che ci sono apparsi negativi e che potrebbero apparire come un processo involutivo in Costa, c'è la magistrale orchestrazione del quinto quadro, per citarne uno, che inseriremmo fra le più belle pagine registiche a noi note: e il colloquio, stupendo, fra Miguel e l'abate, tenuto tutto sul filo teso della misura esatta, del rigore più incrollabile. E abbiamo fatto cenno a questi due soli passi per non dilungarci oltre.
Ci preme infatti parlare della interpretazione. Tino Carraro è stato Miguel Manara: ed una volta ancora ci è giocoforza ripetere per questo attore le lodi che gli rivolgemmo in occasione dell'"Enrico IV" pirandelliano. Attore sobrio, asciutto, ma tutto vibrante di forza interiore; attore dalla dizione chiara e soffusa di venature disparate; attore dalla mimica controllatissima e capace di esplodere a un tratto nella frenetica maschera di Miguel che invoca il miracolo per lo storpio; attore completo, vogliamo dire, di grande scuola.
A Jeronima Carillo, la pura, la fresca Jeronima che troppo brevemente sarà la compagna di Miguel (ma farà in tempo a ricondurlo sulla via della luce) ha dato vita Ilaria Occhini dalla bellezza radiosa. Per quanto costretta, sensibilmente, in uno schema compassato, ha risolto in luce di innocenza una parte non facile, che è anche il perno sul quale gravita tutta la conversione di Manara.
Fuori classe la recitazione di Gianni Santuccio: il suo abate è un sottile gioiello di penetrazione psicologica, di calcolata certezza, di saggia tristezza, di illuminante verità. Saremmo tentati di dire che anche le virgole, le pause hanno preso corpo e si sono fatte parola, si sono incise a una a una nel cuore e nella mente dello spettatore.
E ancora dobbiamo dire di Davide Montemurri che ha impersonato la simbolica Ombra con robusta emozione; di Loris Gizzi che ha caratterizzato da par suo il personaggio di un Don Jaime gradasso e generoso; di Manlio Busoni che è stato «hidalgo» fino alla punta dei capelli; di Rita di Lernia che ha un forte temperamento e che ha reso a dovere la carnale immagine della Terra; e poi ancora di Mario Valgoi, Sandro Rossi e Michele Kalamera, Pietro Biondi e degli altri moltissimi. Di grande bellezza i costumi di Maria de' Matteis, suggestive le musiche di Roman Vlad.
Pubblico eccezionalmente folto, attento e plaudente. Successo pieno, contrassegnato da chiamate numerose alla fine dello spettacolo che stasera e nei giorni prossimi (fino a lunedì) si replica.
PAOLO EMILIO POESIO Nazione Sera, Firenze, 23 Agosto 1962
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