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La recensione di Lucio Romeo
 

Quattro personaggi alla ricerca di Dio
Lo ha definito così Elie Wiesel, nell'intervallo fra i due tempi del suo spettacolo Il processo di Shamgorod, proprio ad un nostro preciso accenno a Pirandello conversando cordialmente con i giornalisti, lui che giornalista lo è stato per lunghi anni. Nel suo elegante, comprensibilissimo francese, appena toccato da un accento diverso — che è poi, la lingua nella quale scrive — ci ha detto: « Quatre personages a la recherce de Dieu! ». E c'era, nel fondo, quella nota di sempre vigile autoironia che aveva già avuto quando, poche ore prima nella conferenza stampa, fra il brontolio dei tuoni lontani che minacciavano di mettere in forse lo spettacolo, si era presentato: ebreo di nascita transilvana, Wiesel venne deportato, ancora giovinetto, ad Auschwitz e a Buchenwaid dove la sua famiglia fu sterminata. Poi, non essendo riuscito ad andare in Palestina, ha vissuto in Francia e in America, a New York, facendo lo scrittore e lavorando per le iniziative pacifiste, tanto da essere candidato al Premio Nobel sia per la Pace che per la Letteratura. « II ruolo del superstite è quello di testimoniare: ci è stato tolto il linguaggio per anni ed io ho dovuto portarlo solo in me » ha detto Wiesel. « E l'argomento della persecuzione del mio popolo è troppo grande per cui ho dovuto estirpare il soggetto dal presente e trasportarlo a tre secoli prima ».
Nasce, così la vicenda de Il processo di Shamgorod, che, appunto, si svolge, in questo sperduto villaggio   dell'Europa  Orientale,   nella  metà   del  XVII   secolo, esattamente la notte del 25 febbraio 1649, nel giorno del Purim — la festa ebraica dei folli, degli emarginati, dei mendicanti in cui si vuole vivere un momento diverso di gioia — quando tre attori girovaghi approdano ad una locanda. Ma la festa non si può fare: a Shamgorod non c'è più una comunità ebraica perché un pogrom — la strage degli ebrei — l'ha sterminata. Niente più spettatori ebrei per i tre attori ebrei se non l'oste Berish e la sua serva cristiana. Berish ha visto morire tutti, proprio durante la festa di nozze di sua figlia, violentata e straziata dagli uccisori sino a perdere la ragione: egli vuole lo stesso che la recita, farsa, gioco, circo si faccia lo  stesso e sceglie, però, lui l'argomento per i tre attori: un processo per quel Dio che ha dimenticato i suoi figli e che non ha saputo  o voluto difenderli.  Berish  sarà il pubblico  accusatore  e i  tre  attori — l'anziano,  austero Mendel, il giullare Avremel e il chiassoso  Yankel — i giudici, la serva Maria  il pubblico:   l'imputato è  assente ma c'è un'altra  e  più  grave   assenza,  una   assenza  che rischia  l'invalidità   del  processo.   Quella   di   un   avvocato difensore. C'è anche un Pope che appare a tratti, con la sua croce, le sue indecisioni, le sue paure. Ma nessuno sembra volersi assumere nel vasto mondo, da Est a Ovest, da Nord a Sud, come dice Mendel, la difesa del Signore. Ma, proprio  quando  ha  detto  queste parole,  sulla  porta della locanda, appare uno Straniero: misterioso, tagliente, completamente padrone di sé, qualcuno che tutti dicono di avere già visto in qualche parte e si offre di recitare il  ruolo del Difensore. La sua logica, la sua oratoria, la sua intelligenza e la sua abilità finiscono, lentamente, per smontare le passionali  argomentazioni  di Berish  e  degli altri. Maria si ribella e rivela di avere già conosciuto quell'uomo.
Un sospetto sembra insinuarsi fra gli attori che recitano un gioco ormai — ed ecco Pirandello! — diventato per essi una straziante verità alla quale non possono sfuggire e, ovviamente, fra gli spettatori: che si tratti proprio di Dio che è sceso sulla Terra a difendersi. Ma è l'istinto della giovane Anna, la figlia demente di Berish, a capire: lo Straniero che stava per vincere è il suo opposto: Satana, che vuole che Dio esista perché la fine di Dio sarebbe anche la sua fine, perché solo in nome di Dio, i falsi profeti, possono dire che bisogna sottomettersi ed accettare. Dio diventa, così, oltre ogni ragione della ragione, lo specchio dell'Uomo, sia esso ebreo che cattolico, che di qualsiasi altra fede, in ogni posto ove Shamgorod diventi Auschwitz o Cambogia o Varsavia o Cile. « Chi parla di disperazione » ha detto ancora Wiesel « è ancora vivo: è per la speranza e per la vita ». Un salto di qualità e di livello rilevante per San Miniato che, negli ultimi anni, era ben lontana dai ricordi di Eliot o di Bernanos, di Claudel o di Fabbri, di Fry o di Graham Greene e che Wiesel ha riportata ad uno spessore internazionale.
L'agile traduzione italiana era di Daniel Wogelmann che con « La Giuntina » di Firenze è anche l'editore italiano di Wiesel. Roberto Guicciardini, come nel suo stile, ne ha tratto uno spettacolo scarno, misurato, quasi secco, traversato da lampi di bruciante grottesco pur fra l'orrore e la violenza, inquadrando la scena in una sorta di scheletro di locanda, inventata da Piero Guicciardini, che sembrava quello di una casa bombardata. Soli quasi con se stessi e con la loro parola, gli attori hanno reso la scoperta « teatralità » dell'opera: Carlo Hintermann che era il massiccio, passionale Berish, il più straziato di rabbia e di dolore, i tre fantasiosi girovaghi con il loro bagaglio di sogni e di realtà, come il solido, concreto Carlo Bagno, il saggio Mendel, Virgilio Zernitz, il giullare Avremel che sa far ridere ma che non ride ed Edoardo Siravo, il giovane e irrequieto Yankel: Annamaria Rossini era la tormentata cristiana Maria, Giorgio Naddi, l'ambiguo Pope, Michela Pavia, la straziata Anna e, infine, Warner Bentivegna, lo Straniero-Satana, nella accattivante astuzia e il fascino sottile e antichissimo che il Male può assumere quando l'ansia o la debolezza dell'Uomo può confonderlo con il Bene.
Pubblico strabocchevole nella improvisata platea dinanzi la solenne mole del Duomo, le cui campane sono anche intervenute al finale e grande, sincero interesse e successo per uno spettacolo di ottimo livello che sarebbe proprio un delitto — come altre volte è accaduto — vivesse solo la sua breve  settimana di  San Miniato.
Lucio Romeo Il Tempo, Roma, 1 Settembre 1983




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