La recensione
Una ricerca di identità che è ricerca d'eternità
Sul raccolto sagrato della Chiesa di San Francesco è cominciata la ventesima «Festa del teatro», quell'annuale appuntamento col teatro religioso, che è vero merito e giusto vanto dell'Istituto del Dramma Popolare. Vent'anni di attività, e a dire la funzione culturale svolta dall'Istituto basterebbe elencare i nomi degli autori fatti qui per la prima volta conoscere; e basta proprio e anche soltanto il nome di Eliot, di cui nel 1948 si rappresentò Assassinio nella cattedrale, nel 1959 Il grande statista, nel 1964 La riunione di famiglia, ed ora si da Il segretario particolare, opera che vide la luce nel 1953 al Festival di Edimburgo. Testimonianza di cultura, dicevamo, innestata in una testimonianza cristiana; teatro e religione come termini non necessariamente divorziati e capaci, invece, di illuminarci insieme sull'uomo contemporaneo.
Il segretario particolare ci porta in un ambiente d'alta borghesia, ed è ad una lunga riunione di famiglia che Eliot ci invita ad assistere, una strana famiglia, in cui, al principio, nessuno conosce l'esatta qualità del suo rapporto con gli altri, e c'è chi si inganna sulla propria identità e chi su quella degli altri.
C'è il finanziere Sir Claude Mulhammer, che assume come segretario Colby Simpkins, un giovane ch'egli crede suo figlio, nato da una relazione precedente il matrimonio con Lady Elisabeth — come Lucasta Angel, una ragazza sensibile e vivida, pure accolta nella casa paterna — la quale, più avanti nella commedia, si persuade di riconoscervi il proprio figlio, nato da un uomo deceduto in un incidente di caccia, senza che fosse a lei possibile di rintracciare la famiglia alla quale il bastardo era stato affidato; in realtà Colby non è figlio di nessuno dei due, ma della donna che
lo ha allevato per conto di Sir Claude, e che egli ha sempre chiamato zia. Fu una sostituzione dettata da molte e neanche ignobili ragioni. Il vero figlio di Sir Claude era morto appena nato. Ma un figlio c'è per Lady Elisabeth: è B. Kaghan, uno degli impiegati di Sir Claude, che si riteneva un trovatello tout court. Le agnizioni in serie avvengono ad opera della signora Guzzard, la vera ma rinunciataria madre di Colby. L'esito più evidente delle sue rivelazioni è la liberazione da ogni pastoia di rapporti formali e di finzioni sentimentali ottenuta da Colby, che invano Sir Claude, il quale si sente solo, cerca di trattenere, ricordando al giovane le affinità elettive, le comuni vocazioni a un mondo superiore, e dimenticando, per sé, di aver rinunciato a seguirle, per un peccato che potrebbe definirsi d'orgoglio. Colby ormai ascolta la voce intcriore, e la sua ricerca di paternità si configura come ricerca di un Padre, al quale sia legata la parte più profonda del suo essere. Sir Claude e Lady Elisabeth accoglieranno Lucasta e B. Kaghan, che intendono sposarsi.
Sullo spunto di Jone di Euripide, sulla reminiscenza della Commedia degli errori di Shakespeare, nella eco ironica e disinvolta del teatro «leggero», nel superamento di suggestioni pirandelliane, nell'uso del «deus ex machina» (o della sua versione moderna, l'ispettore di polizia che, nei drammi gialli, alla fine risolve tutti gli enigmi), nasce e si sviluppa questa singolare commedia in cui il più sfacciato meccanismo teatrale, caricato a vista da una ben sapiente mano, è sorretto e motivato dalla presenza di un problema chiaro e profondo. È il mistero inserito nel mondo dei fatti, è la realtà seconda e segreta, l'eterno che si insinua nel quotidiano, lo spirituale che s'accampa nel materiale, il destino che prende il suo posto dentro e oltre la storia dei grandi come dei piccoli uomini. Nelle volute di una conversazione brillante, nella prosa delle comuni vicende, nel bizzarro concatenarsi di casi bisogna saper leggere, ammonisce Eliot, il segno di altre presenze, di una Presenza, non solo, ma il procedere faticoso dell'adeguamento dell'uomo ad essa, o purtroppo anche le insufficienze e le sconfitte dell'uomo.
Nella commedia in questione, il tema è quello consueto al teatro eliotiano, e lo esponiamo con le lucide parole di Salvatore Rosati, traduttore del corpus drammatico del Poeta (ma la traduzione usata per lo spettacolo sanminiatese è di Marcella Hannau Pavolini, un'ottima versione): «... La vicenda gira intorno a un problema di vocazione, e questo problema si lega sempre con uno stato di consapevolezza». Consapevolezza d'una dimensione verticale, dell'infinito, di una realtà che travalica quella riscontrabile coi sensi, e dunque desiderio di possederla. Si sviluppa un processo di conoscenza della verità, che passa attraverso la conoscenza di se stessi, la identificazione di se stessi. (Ecco la ricerca autentica adombrata in Il segretario particolare nell'indagine sull'identità anagrafica di Colby). Sul piano orizzontale l'agonismo si determina per la diversità di posizioni dei personaggi di fronte al richiamo dell'eterno, e quindi alla loro capacità di realizzare la propria vocazione, vista come una risposta, come un volontario inserimento personale nel disegno di Dio. La verità è rivelazione. La signora Guzzard, comparendo, non lascia ciascuno nella sua verità (o finzione), come la signora Frola; non da la soluzione del caso, come l'oracolo della tragedia greca, ossia una semplice certezza intellettuale (Colby dirà, a verità appresa: «il fatto in se stesso, una volta conosciuto, non ha importanza»); ella disinganna e libera. Libera chi voleva essere libero, perché per gli uomini meschini e tutti affidati al temporale il confronto e il bilancio sono cagione soltanto di dolore; per costoro è venuta l'ora della conoscenza del tradimento verso se stessi, e quello che possono chiedere è soltanto la pietà degli altri, alla quale sostenersi per continuare una vita senza scopo, una vita di finzioni, dimidiata tra una presenza sociale e produttiva, e un rifugiarsi nell'isola dell'«hobby», questo surrogato, appunto, della vocazione, o questa sua degradazione, come nel caso di Sir Claude.
Questo severo contenuto, di tanto intensa drammaticità e di tanto scavata e scabra religiosità, si distende, e ora trapela, ora si fonde, ora domina, nell'arco di una vicenda movimentata da colpi di scena, divertente nella sequela degli equivoci, animata da figure viste con occhio di saggezza, nel che si colloca e armonizza anche ogni loro eccentricità. La bizzarria degli uomini e dei casi è l'inesplicabile fatuità e imprevedibilità della vita stessa: il tratteggio ironico misura la propria intensità sul singolo grado di consapevolezza di sé. Dunque, un giudizio morale è sotteso, e questo toglie, credo, argomento a chi vedrebbe il tono della commedia in un «divertimento» alla Wilde, o alla Coward; e nemmeno si potrebbero invocare antenati illustri. Il gioco comico non è fine a se stesso, ma strumentale (Così all'egro fantini porgiamo aspersi — di soave licor gli orli del vaso...); la serietà della sua conduzione fa onore al commediografo, ma non assolve il più vasto impegno del Poeta. Semmai il problema è di considerare se questo recupero di concetti medievali sull'arte, sulla doppia scrittura, onde la favola ha un senso e un sovrasenso, se questo audace binario conduca l'azione e la poesia insieme alla meta. È raggiunto l'equilibrio della forma?
Pare a noi, accertata la profondità e la coerenza ideologica, la purezza dell'emozione fondamentale, la sovrana finezza delle annotazioni psicologiche, la perfetta intonazione del dialogo a un ideale di parlato non naturalista, che non sempre tra i fatti scenici e il discorso arretrato avvenga la miracolosa scintilla della fusione. Che non sempre, se drammaturgicamente ineccepibile, l'opera attinga la poesia. Si ha, in essa, un moto pendolare, e l'insito rischio di un accamparsi dei valori più tattili di divertimento, con perdita di tasselli del quadro generale intcriore, è, a tratti, una realtà. Oh, una realtà appena distraente, non potendo lo spettatore avveduto non cogliere l'arguta pretestuosità dei «fatti»; e tuttavia questi «fatti» hanno un peso quantitativo, e impongono allo spettatore stesso l'esercizio di una specie di automatico doppiaggio, di riconversione della parabola, con annesse operazioni di scarto e di sintesi, che evidentemente costano qualche fatica supplettiva. Il fascino della commedia brillante tende saltuariamente a porsi assolutamente, e qui sta il jato.
Ciò non appanna che lievemente, non essendo diminuzione di rigore stilistico o di forza inventiva, ma solo prestando il fianco a osservazioni di ordine tecnico, o per meglio dire letterario, l'interesse dell'opera e la profondità del suo messaggio. Opera lieve quanto discreta, pervasa di pudore e di delicatezza. Opera che ribadisce la necessità della libertà dell'uomo, il suo bisogno di verità, e afferma la insostituibilità dell'amore per dare un senso ai rapporti tra gli uomini. Il prossimo è un elemento non eludibile per l'individuo, nel momento stesso che egli si pone il problema della propria personalità («Tra il non conoscere quel che gli altri vogliono da noi e il non conoscere quel che noi dovremmo chiedere agli altri, quanti errori si commettono!»). È cioè dichiarata la necessità di una illuminata caritas reciproca.
Sorridente e pensosa, la commedia chiude in mestizia serena, ognuno avendo conosciuto se stesso, ed essendosi caricato del proprio destino.
L'esecuzione d'un'opera siffatta, non ambigua ma complessa, pretende la soluzione di difficili problemi: occorre conservarle il suo humour leggero, e nello stesso tempo evitarle l'etichetta di «divertissement»; occorre rendere evidente il suo messaggio, ma per tocchi e da spiragli, non prevaricando con la seriosità i limiti tonali posti dall'autore; la azione, il teatro, la poesia debbono giostrare sulla corda d'un gioco scenico in cui la consapevolezza d'essere un gioco non incida sulla serietà del giocare, e la finzione sia riconosciuta e superata con una sola operazione mentale.
Lo spettacolo, assidua cura di Josè Quaglio, evita la riduzione del testo ai suoi accidenti; se talora cede, cede — e piuttosto attraverso l'attore, che per esplicita volontà registica — alle suggestioni contenutistiche, adottando moduli intimistici. L'optimum sarebbe stato saper rendere fino in fondo quanto di teatralmente scoperto c'è nella commedia con un certo distacco di prospettiva, in modo da creare una leggera tensione d'assurdo, veicolo plausibile e aura propizia allo spirare del nume, ossia a quel senso del mistero, dell'infinito, che tutta la percorre. Bisogna prosciugare un poco le espressioni, e in luogo del dolore insinuare piuttosto qualcosa che significhi l'attonito avvertire della realtà superiore. Così, l'apparizione della signora Guzzard dovrebbe essere, in trasparenza, terrificante, data la sua tremenda funzione dismagatrice.
Parere, il nostro, che non vuole incrinare la fecondità di un lavoro approdato a nobilissimi e compatti risultati. È buon teatro, questo, umile e forte e comunicativo, senza lenocinii. In scena, un Gianni Santuccio molto bravo, ma leggermente a latere nella sua interpretazione di sir Claude, per quel tanto di drammaticità romantica che aggiunge al testo, una straordinaria Elsa Merlini, incontratasi d'istinto con il delizioso personaggio, deliziosamente impersonato, di Lady Elisabeth; un Colby d'efficace sobrietà è Giulio Bosetti; una bravissima Lucasta è Lucilia Morlacchi, così aderente alle pieghe di dolorose memorie, di inquietudini, di attese, che costituiscono questa vivida figura di donna; e che mordente B. Kaghan è Nanni Bertolelli; Adriana Innocenti e Giuseppe Pagliarini chiudono egregiamente il «cast».
Scene e costumi di Misha Scandella: anonimi i costumi maschili, decorative le scene.
Un bellissimo successo. La spettacolo meriterebbe di non morire a San Miniato.
ODOARDO BERTANI, L'Avvenire d'Italia, Bologna, 24 Agosto 1966
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