La recensione
Foschi a caccia dell'anima con uno Strindberg «inedito»
Nella mappa capricciosa e sovraffollata degli spettacoli estivi proliferanti all'insegna della festivalmania, brilla di luce solitaria la festa del teatro che sin dai giorni dell'immediato dopoguerra l'Istituto del dramma popolare promuove nella storica piazza del Duomo di San Miniato, allestendovi testi di ampio afflato religioso e di ispirazione cristiana, non perciò strettamente confessionali.
Per il suo 44° appuntamento con il teatro la splendida cittadina toscana - che non a caso ha per patrono San Genesio, protettore dei comici - ha iscritto per la prima volta nel suo prestigioso carnet il nome di Johan August Strindberg, l'inquieto, inquietante, tormentato narratore e drammaturgo attratto altresì dalle più disparate discipline filosofiche, sociologiche, scientifiche. Del suo rovello ulteriore, caratterizzato da crisi mistiche alternate a furori nichilistici danno testimonianza estrema le sette «stazioni» di La grande strada maestra sua ultima opera drammaturgica e veridico testamento spirituale.
Mai prima d'ora allestito in Italia, il dramma-confessione del figlio di una serva per sempre segnato dalla autoritaria educazione paterna, è stato tenuto a battesimo a San Miniato dal regista Mario Merini avvalsosi della traduzione e dell'adattamento di Enrico Groppali, esemplarmente attento a conservare fluente e insieme corrosiva purezza al folgorante linguaggio originale.
Opera di ardua resa scenica, assai più prossima alla molteplicità delle itineranti sacre rappresentazioni medievali che rispettosa delle tre unità aristoteliche, La grande strada maestra è stata ambientata da Morini nella severa cornice scenografica di Stefano Pace, un grigio-plumbeo bastione castellano o, chissà, l'anticamera dell'inferno, ad unificare le ambientazioni originali tra cime e dirupi, mulini a vento, mercati cittadini, parchi davanti al crematorio, buia foresta.
Il versante giansenistico dell'impari scontro con Dio di un eroe che infine confessa l'atroce dolore di non essere stato colui che avrebbe voluto essere è pienamente restituito da un rigore registico che si nega alle tentazioni spettacolari, rinuncia a qualsiasi effetto, rifiuta ogni suggestione e coloritura per illuminare appieno l'itinerario a ritroso del cacciatore che dalle vette superne scende nella palude degli umani orrori. Troppo a lungo vissuto tra gli uomini, fino al punto di perdere l'anima, è appunto l'anima ohe egli ricerca fin dal primo incontro con l'eremita, in prossimità del Paese dei desideri, leciti e illeciti.
Rimandi allegorici, furore iconoclasta, ardore religioso, frusta spieiata contro i vizi del mondo, squarci lirici, intuizioni divinatorie, momenti di alta poesia alternati a divagazioni di humor nero confluiscono in pagine di lettura affascinante quanto di ardua restituzione scenica. Sicché nella sua scelta di teatro povero - dove una panca grigia e una botola sono gli unici accorgimenti scenici - Morini punta tutto sulla concertazione interpretativa, avendo avuto l'intelligenza di eleggere a protagonista un attore di forte personalità e autorità intcriore come Massimo Foschi.
In scena dalla prima all'ultima battuta, Foschi innalza a statura titanica il Cacciatore impegnato'a ritrovare la pura sorgente del suo io, a riconciliarsi con l'Onniponente, ad attendere su una cima coperta di neve l'ora delle liberazione. Sia pure sapientemente sfoltiti rispetto all'originale, i suoi lunghi monologhi avrebbero rischiato di risultare troppo gravosi per la pur disponibile platea ove non fossero stati sublimati dalla «fonè» cristallina e dalla mimesi coinvolgente dell'attore-sciamano.
Nell'incantata notte samminiatese La grande strada maestra ha avuto il contributo determinante di Milena Vukotic, quadruplicatasi con pari fragranza e vibrante incisività nei ruoli della ragazza, di Klara, della donna, del tentatore. Al successo del rigoroso allestimento strindberghiano hanno meritoriamente contribuito tutti e dieci gli interpreti dei venti personaggi, a cominciare dall'eremita di Mico Cundari, dal viandante di Carlo Simoni, dall'allucinato maestro di scuola di Stefano Gragnoni, dall'ottuso fabbro ferraio del travolgente Gianfranco Condè, senza sottovalutare gli apporti di Eliana Lupo, Gianluca ed Elettra Farnese, Antonio Cascio.
Ad applaudire fra i mille, la sera della prima, era il presidente del Senato Spadolini.
Castone Geron, Il Giornale, Milano, 23 luglio 1990
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