La recensione
Un sacrilegio e la sua «contemporaneità»
Italo Alighiero Chiusano torna a «rivistare», dopo la felice esperienza del romanzo L'ordalia, il mondo fascinoso e barbarico dell'Alto Medioevo. Ma, questa volta non in veste di narratore sebbene in quella di autore drammatico, testimoniando così quella che egli stesso ha confessato essere la sua «vocazione numero uno»: il teatro. «La mia narrativa — ha fatto notare lo scrittore in una recente intervista rilasciata a Marco Bongioanni — è nettamente scandita in ritmi teatrali. In filigrana si nota che io penso teatralmente. Il dialogo è la spina dorsale di qualunque mio racconto...».
Risultato di questa nuova incursione di Chiusano nella temperie storico-spirituale dell'Anno Mille è il dramma Il Sacrilegio che l'Istituto del Dramma Popolare ha presentato con successo alla 36' edizione della Festa del Teatro a San Miniato, replicando per sei sere il coinvolgente spettacolo nella suggestiva cornice architettonica della piazza del Duomo, ricca di vestigia millenarie trasudanti storia e civiltà.
Il primo dato positivo che emerge con chiarezza dalla rappresentazione de Il Sacrilegio è la conferma che, per Chiusano, l'accostarsi all'universo medievale non è il riflesso di quella «moda culturale» oggi particolarmente in auge che, di quei secoli remoti, recepisce essenzialmente la superficie di atmosfere evanescenti e sfumate di corrusca raffinatezza formale. Per l'autore de L'ordalia, e qui si configura con tutta evidenza la «specificità» del Chiusano «storico» tra virgolette, l'evento attinto dalle pagine di storia non diventa il pretesto per indulgere ad un «datato» colore locale né, soprattutto, il veicolo di una reinterpretazione «moderna» sviluppata sui binari angusti di una precostituita tesi «ideologica», quanto piuttosto la scintilla di un magico momento di intelligenza creativa in cui la storia stessa di fa «contemporaneità», cosicché le problematiche morali che flagellavano le coscienze dell'uomo dell'Anno Mille entrano in sintonia con gli interrogativi di fondo che assillano l'uomo di oggi.
Ed è proprio questa contemporaneità che — come ha scritto pertinentemente Marco Bongioanni, direttore artistico della Festa del Teatro sanminiatese — «tramuta la Storia in interiorità e religiosità; ne fa una questione spirituale intcriore all'uomo d'oggi», cosicché l'evento lontano viene ad attualizzarsi nella coscienza dello spettatore e, proprio in questo processo di interiorizzazione e di comunione («religio» nel senso etimologico di legame, da «religare») fra l'atto creativo dell'autore e l'intelligenza del fruitore celebrantesi nella rappresentazione drammatica, il testo viene a caricarsi di valore poetico. Ma religiosità anche e soprattutto intesa come precisa visione spirituale del mondo, perché all'autore — come egli stesso ha sottolineato nella già citata intervista — la storia interessa perché cristiano, perché ben radicato in una concezione del mondo che vede la Storia come «una progressiva evoluzione verso un punto finale. Questo progredire — continua Chiusane — altri non ce l'hanno. Lo hanno i "laici", in una maniera però che io non posso condividere perché non sono così ottimista da credere che certe nuove strutture sociali, che pure desidero risolvano tutti i problemi dell'uomo e siano il cielo in terra. Le altre religioni sono «cicliche», sempre fisse su un medesimo punto, e non posso farle mie. Io credo di essere innamorato della Storia proprio perché, in quanto cristiano, la sento come sviluppo, conquista, lotta, superamento, realizzazione...».
Il nucleo della vicenda de Il Sacrilegio è realtà storica e prende l'avvio dallo «scandalo» che, intorno all'Anno Mille coinvolse la celebre abbazia di Farfa, in Sabina, che per lunghi secoli aveva rappresentato un faro di luce spirituale e culturale della Cristianità, e che, proprio in quegli anni, era decaduta trasformandosi in un luogo tristo di corruzione e di lussuria, in un nido di criminalità e di nefandezze. Il giovane monaco Ugo, rampollo, di una famiglia facoltosa e uomo di forte religiosità e solida cultura, vuole riportare l'abbazia all'antico splendore di mistica purezza, e ne diviene abate, commettendo però peccato di simonia in complicità con papa Gregorio V, suo coetaneo e cugino del giovanissimo imperatore Ottone III. Da quel giorno, Ugo fu l'abate santo, energico e intelligente che riportò Farfa alla sua tradizione di santità e di centro di cultura e di mistico rinnovamento spirituale nel solco della riforma cluniacense.
Il dramma è tutto incentrato sul rovello interiore e sull'angoscia che accompagneranno fino agli ultimi giorni di vita Ugo per quell'antico «sacrilegio» con cui egli stesso, un giorno, aveva creduto di poter giustificare, per un fine nobilissimo e santo, un mezzo turpe. Ecco così delinearsi, in tutta la sua «contemporaneità» e universalità il tema e l'interrogativo se sia giusto cedere a concessioni e patteggiamenti con la legge morale, pure se per raggiungere risultati sacrosanti. Ed ecco, patimenti, aprirsi alla coscienza dello spettatore il parallelismo con la «contemporaneità» dell'odierno costume politico ed esistenziale, con le odierne strategie del relativo che portano alle alleanze tra ideologie inconciliabili, con la diabolica assolutizzazione dell'assioma ideologico e dell'utopia che sfocia nella follia omicida del terrorismo. Emblematico, in questo senso, risulta il personaggio di Probato, il monaco che, scandalizzato nel suo fanatismo dal peccato di simonia commesso da Ugo e dallo stesso massimo custode della santità della Chiesa, diventerà per reazione apostata, saraceno e portatore di morte, credendo così di «liberarsi».
La regia di Gian Filippo Belardo, sfuggendo a qualsiasi tentazione di lenocini figurativi, ha teso con ottimi risultati a far scaturire dalla sobria e scarna ruvidezza dei dialoghi l'attualità tutta spirituale delle problematiche racchiuse nel testo. Degli interpreti, diremo che Carlo Simoni ha reso con sfumature di profonda interiorità la sofferenza sublime di Ugo; Mita Medici ha donato accenti di schietta credibilità alla figura della giovane Inga ed al suo riscatto fatto di amore e coerenza; Giorgio Favretto è stato un Probato tutto spessori e fanatismo; Vittorio Sanipoli ha disegnato a tutto tondo la figura dell'abate Campo, corrotto e corruttore; Gianfranco Ombuen ha impersonato le angosce di Gregorio V, il papa che pur combattè la simonia allora imperante nella Chiesa. Perfettamente nei ruoli Serena Michelotti, Claudio Dani, Giorgio Naddi, Gioietta Gentile e Sergio Rubini. Austeri ed essenziali nella loro ruvida linearità i costumi e le scene di Salvatore Venditelli. Le musiche recavano la firma di Peppino Gagliardi.
Carlo Cozzi, Il Secolo d'Italia, Roma, 22 Luglio 1982
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