Il piccolo Gwyn, redentore e agnello
Blestin è uno sperduto villaggio di contadini e di pastori, nascosto nel cuore del Galles. Ma non è una serena comunità patriarcale lontana dall'affanno cittadino, che si nutre della sobria schiettezza dei riti quotidiani e che vive con devozione le costumanze morali e religiose dei padri. Dappertutto infatti si respira inquietudine, i sentimenti appaiono scossi, lacerati, stravolti, il passato non offre garanzie, l'atmosfera grava, plumbea, sugli abitanti. È colpa della guerra di Crimea, appena terminata, e che ha falciato inesorabile tante giovani vite, togliendo al paese energie e voglia di futuro? Oppure è stata una tragedia del mare, recente eppure già proiettata in una allucinata, remota dimensione, l'evento che ha dissanguato Blestin e che, scarnificandola, le ha tolto anche un cuore pulsante e un'anima ansiosa di Dio? Il fatto è che su tutto ristagna un sentore di morte: da anni non nascono bambini, non si sente più né ridere né cantare, nessuno innalza più lodi o preghiere a Dio. La vita è più destino opprimente e fatale scorrere di giorni che slancio e desiderio. E tutto appare avvilito, prostrato, inquinato, mentre avanza un'epidemia di colera.
Chi ha veramente voglia di resistere, di opporsi a questo male che si annuncia con i suoi segni funesti, di riaprirsi alla speranza e all'attesa? Non certo Dilys Party, vedova trentenne, che sembra l'emblema della desolazione. Le sono morti il marito e il figlio, tutto le appare angosciante e insopportabile, e c'è in lei una sorta di compiacimento morboso per questa situazione senza via d'uscita: inutilmente, dunque, la giovane nipote Menna, innamorata e fiduciosa nell'avvenire, la esorta a riaprirsi alla vita. Ma ecco che la medusa vischiosa e urticante di una tragedia, che è prima di tutto quella dell accidia, subisce un primo colpo: giungono al paese due forestieri, mister Ellis e mister Pitter, rispettivamente proprietario e direttore di un luna park a Birmingham, e vengono a bussare proprio alla casa della signora Party. Ma che cosa vogliono? Un nuovo numero per il loro circo, un fenomeno da esibire sul palcoscenico: hanno sentito parlare della presenta a Blestin di un prodigioso nano capace di trarre dal nulla straordinarie armonie e di realizzare eccezionali imprese. Sono dunque arrivati al villaggio per trovarlo e ingaggiarlo...
Il vento del cielo, dramma di Emlyn Williams, attore, autore drammatico e regista inglese, morto a Londra l'anno scorso, già da queste prime stazioni, crea nello spettatore il presentimento di un mistero sacro. Dove tutto è potentemente realistico e, al tempo stesso, allusivo, simbolico, segnato da forza evocativa. Siamo in un microcosmo, evidentemente rappresentativo delia condizione umana, dove tutto sembra perduto: vi è passato il male e vi ha inciso tracce profonde, si annunciano terribili, nuove pestilenze, l'uomo si abbandona all'inerzia dello spirito, al mortale torpore che segna la caduta e lì si chiude nella persuasione che Dio non esiste oppure che è immensamente lontano. Ma ecco strani segnali: ospiti inattesi alla ricerca di un miracolo vivente. Sono uomini di circo: l'uno, compassato, razionale, accorto nelle sue arti diplomatiche, l'altro, un affarista volgare e senza scrupoli, che esibisce in modo sfrontato il suo credo materialistica. Che cosa potrà venire di bene da loro? O attraverso loro? E chi è mai il nano capace di meravigliosi portenti?
La Festa del Teatro di San Miniato - che ha scelto per la sua quarantaduesima edizione Il vento del cielo seguendo la prassi ormai consolidata ai andare a cercare le proprie occasioni rappresentative nel poco conosciuto o nell'inedito purché spiritualmente vitale e problematicamente suggestivo — ci ha da anni abituato al gusto delle domande. Di quegli interrogativi cruciali che alimentano la tensione interiore e che un teatro di ispirazione religiosa non deve temere di proporre. Prima di essere pacificazione e conciliazione, infatti, il cristianesimo è turbine: viene a mettere in discussione, a coinvolgere e a sconvolgere. La dialettica crisi-crescita trova qui le proprie radici. Ora, Blestin è un paese dove non si nasce, non si cresce, non si vive più perché tutto affonda nella morta gora della rinuncia a essere: e non si può essere, se non si testimonia. Non si è al di fuori della solidarietà sociale; non si è se non sei capace di ridere, di piangere, di pregare Dio; non si è se si uccide la speranza, se la si nega con la nostra rassegnazione al male. La testimonianza per eccellenza è l'Incarnazione: se lo Spirito si è incarnato per salvare l'umanità, è neccesario che quotidianamente la nostra carne si faccia spirito, perché ci si possa salvare come uomini, cioè assieme ai nostri fratelli e in unità con Dio.
Blestin è metafora di solitudine e di deserto: ma in questo deserto c'è la rivelazione di una musica arcana. Chi porta l'annuncio non ha nulla di angelico: anzi, è umano, troppo umano, come lo sono i miseri abitanti del villaggio. Eppure la mediazione angelica è fuor di dubbio: come già sappiamo che i mediatori e gli increduli diventeranno apostoli. Infatti il nano, che è poi il puer, il bambino divino Gwyn, figlio della serva di casa Party, è figura del Salvatore, è il Messia ritornato che viene a riscattare gli uomini, sottraendo alla morte spirituale il villaggio di Blestin. Gwyn, redentore, sarà anche l'agnello immolato sull'altare, l'ostia consacrata — che assume su di sé tutti i
mali del mondo, la Parola della salvezza, quella che restituisce Dilys alla vita, che fa risorgere il fidanzato di Menna ucciso dal colera, che si svolge come predicazjone dalla bocca di Ambrose Ellis, l'imbonitore tornato al suo antico ruolo di maestro. L'opera-parabola dello spiritualista e anglicano Williams è costellata di richiami evangelici impliciti o espliciti, a partire dai versetti di Giovanni: «il vento soffia dove vuole: uno lo sente ma non può dire da dove viene né dove va. Lo stesso accade con chiunque è nato dallo Spirito»; «lo vi dico in verità che verrà il tempo, e anzi è ormai giunto quando i morti udranno la voce del Figlio di Dio: e quanti l'avranno udita vivranno». Si tratta di un'opera tesi? Forse è inevitabile. Alla realizzazione teatrale spettava magari di alleggerire la didascalia nell'uso sapiente dei tempi e degli spazi scenici e delle tonalità recitative, per evitare passaggi troppo bruschi. In sostanza, il definirsi di ciò che poi diventa un progetto di vita doveva essere percepito in un accorto dosaggio di sfumature, in una lenta progressione di luce. La regia di Franco Meroni, pur cosi attenta e sensibile e, diremmo, parca nella traduzione scenica dell'oratorio di Williams, doveva chiedere agli attori vibrazioni espressive più sottili nel rendere il travaglio di una interiorità contratta e lacerata, che man mano si espande e si libera. Arnoldo Foa e Aldo Reggiani, Nunzia Greco e Angela Cardile sono bravi, ma il senso della grande avventura spirituale che trasforma e informa richiedeva uno studio più puntuale dei caratteri e una mimica più interiorizzata. Sarà colpa dei tagli apportati al testo originario se attori cosi intelligenti non hanno reso tutte le suggestioni che l'opera di Williams contiene? Molto essenziale e in sintonìa col dramma è invece la scenografia di Stefano Pace, cosi intonata al grigio di una lontananza che però presuppone il riscatto e l'ascesi.
Di forte impatto visivo poi, l'immagine creata per il tradizionale manifesto annuale che da sempre accompagna le rappresentazioni e le feste del Teatro al San Miniato: l'ha
ideata stavolta Salvatore Fiume, uno dei nostri artisti più attenti alla potenza visionaria della figura.
MARIO BERNARDI GUARDI, Messaggero Veneto 20 luglio 1988
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