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La recensione di Achille Fiocco
 

La recensione

Un San Lorenzo calato nel tempo nostro

C'è stata lotta di santi a San Miniato. Una Santa Marina di Tullio Pinelli e un San Lorenzo di David M. Turoldo. Ha vinto il San Lorenzo e non è qui il caso di ricercarne il perché. Contentiamoci di annotare che il santo della graticola meritava questo riconoscimento, non foss'altro in considerazione del mese, in cui ormai la famosa manifestazione sanminiatese si svolge. Non per niente, la Festa del Teatro è stata anticipata e lo spettacolo s'è dato ieri, 10 agosto. «San Lorenzo della gran caldura» è il detto popolarissimo e tutti sanno quante fantasie si fanno su quelle stelle che cadono, e a chi sembra un angelo del ciclo e a chi una lacrima e tutti esprimono un desiderio.
Padre Turoldo, però (perché il Turoldo è Servo di Maria e, come ognun sa, poeta al servizio di Dio), Padre Turoldo vi ha visto un santo energico, niente affatto romantico: tutt'al contrario, il santo che abbiamo ascoltato iersera sulla piazza del Duomo, nella rievocazione che ne fa il sacerdote, secondo l'adattamento di R. M. Cimnaghi, è un santo raziocinante, discettante con sottigliezza, armato di ferree spade dottrinarie, scaltrissimo nell'impostare i problemi e disquisire sul ruolo eterno della Chiesa, sui suoi rapporti col mondo, sulla ricchezza e sulla povertà, sullo stato e l'antistato, un santo, insomma, molto aggiornato, specialmente nel linguaggio, e quale, forse, il popolo non s'aspettava di conoscere. Chi cercava qualche cosa fuori dell'ordinario, nel senso della dolcezza e soprattutto della leggerezza ideale, che circonda i santi, sarà rimasto deluso. Ma, se anche qualcuno ricorderà con un sospiro la trepida rozzezza delle laudi umbre, bisognerà bene concedere al nostro secolo complicato la tenacia di un dramma, che per vie difficili va in cerca della stessa acqua.
Da noi e dai nostri giorni è partito il Turoldo. Ha immaginato una funzione in chiesa, nel giorno di San Lorenzo, col sacerdote e il popolo tutto, il coro, che gli risponde. Questo popolo è inquieto, dichiara ad alta voce che è stanco di soffrire, che la corruzione dilagante lo soffoca, che è in dubbio persine sulla vita della Chiesa e che vuole salvarsi. Ma come? e per mezzo di chi? Una donna crede di ravvisare nel sacerdote un nuovo Lorenzo, tanto la sua postura è ieratica e i suoi atti e le parole pieni di carità. Le tentazioni, ogni volta sotto un manto diverso, assediano il sacerdote. Disperazione, scrupolo, miseria morale e materiale camuffata da amor tradito, tutte partono da uno stesso male: l'orgoglio. Lorenzo, tesoriere della Chiesa, è l'occasione più stretta per parlare dei beni e dei peccati, dei palazzi d'oro e delle alleanze coi potenti, degli ardimenti e delle viltà della augusta comunità fondata dal Cristo. Lorenzo non ebbe paura, andò incontro al martirio e irrise ai carnefici. Sacerdote e popolo
ancora oggi lo invocano. Di più: inscenano essi stessi una «rappresentazione» di quel martirio. E San Lorenzo incarnato dal sacerdote, appare da quel lontano III secolo, in cui visse, e ripete la sua vicenda allucinante. Accusato di congiurare contro l'impero, di voler fuggire, perché scoperto, Lorenzo attende a pie fermo i suoi persecutori e dibatte con loro, prima con Macriano, consigliere imperiale, poi con lo stesso imperatore Valeriane, i diritti del Cristo e della sua Chiesa.
Il suo discorso è una precisa messa a punto della missione della Chiesa nel mondo, dei suoi rapporti con lo Stato, sempre satanico, se dittatore, della necessità che la Chiesa stia sempre coi poveri e sia povera essa stessa, poiché tutto ciò che è della Chiesa è dei poveri e ad essi deve tornare. Perciò, il Cesare non si aspetti i calici e le patene d'oro, che in realtà non esistono (e difatti non esistevano), poiché tutto è stato dato a chi di dovere. Delle parole del santo l'imperatore intende solo il danno fatto all'erario e la beffa, e condanna Lorenzo a morire sul rogo. L'ultima scena è costituita dal racconto dei miracoli e del glorioso martirio e dalle lodi del popolo al santo, che con tanta fortezza ha illustrato contro i prevaricatori la verità della fede.
Delle tre parti, nelle quali si può scindere il dramma, diviso in due tempi, la più centrata è la prima, per la condotta, malgrado i ricordi elioteschi, e per l'intima sincerità del tormento; la seconda, prevalentemente dialettica, è piena di fini riflessioni, ma nella discussione perde di mira il santo; talché ci sorprendiamo ad amarlo soprattutto quando è scomparso dalla scena e, nel commosso racconto delle «immagini», ci giunge l'eco del suo tragico umorismo sul fiammeggiante letto di morte.
L'oratoria è il tratto distintivo del dramma. Ad essa il Cimnaghi ha posto un argine, frammentando i discorsi con ripetuti interventi del coro, qua e là sforbiciando e suturando con cura. Ma, come accade di certe bisacce, che, premi a destra, si gonfiano a sinistra, così alia semplificazione operata si è contrapposta una profluvie di iterazioni corali, che, essendo la stesura in prosa, spesso rasentano la sazietà. Per il resto, l'avere affidato allo stesso sacerdote e al popolo presente la rievocazione del santo e delle sue vicende ha dato all'azione una sua unità. Il giovane regista Giovanni Poli, appena reduce dai suoi successi esteri, ha così avuto modo di dimostrare la sua bravura, movimentando la scena nella cornice sobriamente fastosa dello Scandella, sulle scalee digradanti in vari ordini, e portando il coro alle supreme vibrazioni. A noi è parso che in queste si eccedesse e le cadenze e le movenze prendessero talora l'aspetto d'un espressionismo estetizzante. Difetti delle virtù, che i canti gregoriani diretti dal Maselli hanno in parte attenuato. L'impressione complessiva è stata di un fervore assiduo, al quale hanno partecipato tutti, dai singoli elementi del coro alle «tentazioni» o «immagini» (il Dal Fabbro, il Bosic, il Giacobini), a Macriano (il Rama), all'Araldo (il Merli). Antonio Pierfederici è stato volta a volta il sacerdote e Lorenzo: più contenuto, come era giunto, nella seconda parte, ha offerto al santo un taglio cedevole, che ne ha potenziato la nobiltà. Applausi scroscianti
agli attori e al regista dal pubblico gremito, in mezzo al quale si notavano i ministri Folchi, del Turismo e dello Spettacolo, e Bosco, della Pubblica Istruzione.

ACHILLE Fiocco, Telesera, Roma, 19 Agosto 1960




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