La recensione
Un messaggio di civiltà
Un grande, commosso successo ha ottenuto a San Miniato, nella suggestiva Piazza del Seminario, La rosa bianca, elaborazione drammaturgica di Dante Guardamagna che — ben coadiuvato dall'asciutta regia di Giulio Bosetti — ha saputo ripercorrere la storia sconvolgente di un gruppo di giovani cattolici che pagarono col sacrificio della vita, la loro opposizione al nazismo. Si è trattato — come hanno detto — nella conferenza stampa Guardamagna e Bosetti — di un esperimento nuovo come procedura e come metodologia teatrale, perché la proposta tematica ha offerto all'autore e alla regia l'occasione per realizzare un primo canovaccio, un intarsio di documenti e di pezzi che hanno trovato il momento unificante nel lungo estenuante processo che ha come protagonista-mostro la figura sinistra di Roland Freisler, Presidente del Tribunale popolare del Reich. Intorno a lui si snoda la storia di questo generoso tentativo di protesta non violenta contro il dilagare della follia nazista, un tentativo generoso ma senza prospettive, perché privo di collegamenti non soltanto con le forze che, sia pure in modo disorganico e disperato si opponevano a Hitler, ma con lo stesso mondo della Chiesa che, certamente, non poteva seguire le teorie avanzate del Vescovo di Munster.
La protesta, perciò, non incise nella trama criminale dell'apparato nazista, ma simboleggiò la sofferta esperienza di un gruppo isolato di giovani idealisticamente attratti dai principi ecumenici della solidarietà e della fratellanza e protesi a pubblicizzare l'amore come bene universale e irrinunciabile. La loro tragica esperienza passa attraverso una fitta rete di dubbi, di esitazioni: «è difficile», dirà il porf. Huber, il filosofo-padre spirituale dei giovani, «fare la rivoluzione senza rabbia e la storia di domani ci rimprovererà di non aver saputo affrontare concretamente la realtà». In questo quadro di angoscia e di speranza in un domani migliore, cui fa da contrappeso il mondo ebbro di violenza e di turpitudine del nazismo, si sviluppa la tragedia dei giovani della Rosa bianca; un primo tempo tutto rivolto a cogliere la maturazione di un processo di consapevolezza e di opposizione, pur entro le mura di una timida educazione familiare, e dell'ossessiva propaganda della Hitlerjugen (e lo sviluppo denuncia una certa lentezza); un secondo tempo, senza dubbio, di grande efficacia e presa attraverso l'illustrazione dell'opera della Rosa bianca, della passione accesa di Hans e Sophie Scholl, animatori della protesta passiva, fatta di parole e di volantini clandestini, trascinatori del gruppo di amici dell'Università, e stoicamente decisi ad accettare la mannaia del boia pur di lasciare una testimonianza che aprisse almeno gli occhi del mondo futuro.
Sulla lezione di Goethe e di Schiller anziché su quella di Fichte. Crollano così le discriminazioni contro gli ebrei, contro la classe operaia e risalterà la strumentalità e l'inganno dietro l'affermazione che Hitler fosse indispensabile a fare da barriera al bolscevismo: ma al di là di questa presa di coscienza, c'è l'urlante Preisler, marionetta accecata dall'odio e dal sangue che ormai circonda la tragica realtà hitleriana, la cui fanatica esasperazione viene come ingoiata dall'affresco tragico di corpi avviluppati nell'ultimo destino, mentre l'aria viene solcata da centinaia di volantini, piccoli frammenti che eterneranno l'insopprimibile bisogno di amore dell'uomo di ieri e di oggi.
Il messaggio conclusivo si diffonde in un clima di grande commozione e di partecipazione: il pubblico viene coinvolto come testimone di un fatto di storia vera e sofferta di ieri che si riverbera nelle coscienze di oggi con inquietanti analogie e sollecitazioni di impegno civile e morale. Fra le centinaia di volantini caduti sul pubblico, ne abbiamo raccolti due che sono emblematici di questo ponte ideale fra passato e presente. Uno riporta una frase di S. Agostino «Nella necessità, l'unità. Nel dubbio, la libertà. Sempre: l'amore». L'altro riprende un giudizio di Bertolt Brecht da Santa Giovanna: «Non chiedetevi se siete stati buoni. Ma se avete lasciato un mondo buono». Ogni spettatore si è così portato a casa i volantini della Rosa bianca...
Lo spettacolo, come abbiamo detto, ha ottenuto un grande successo: l'esperimento è pienamente riuscito sia per la pregnanza testuale sia per il gioco inventivo e scenico che movimenta questa specie di oratorio in cui sono avvertibili gli echi della lezione di Woise, del teatro nel teatro, senza peraltro scadere (e il rischio c'era) nella retorica, nell'agiografia, nel gigantismo mistico e personalistico. Merito anche e soprattutto dei bravissimi attori a cominciare da un efficacissimo Franco Mezzera, l'istrione recitante, che ha saputo caricare il personaggio di Freisler di tutta la sordida ripugnanza dell'aguzzino e del fanatico attraverso una mutevole e originale tastiera di atteggiamenti recitativi e mimici di altissimo livello; al suo fianco ricorderemo la porva di grande equilibrio di Tino Shirinzi nel ruolo sofferto e difficile del prof. Kurt Huber: il suo colloquio chiarificatore con gli studenti è di una finezza artistica e partecipava (ora umbratile, ora irata) di notevole rilievo.
Insieme a loro citeremo Valentina Montanari, una Sophie dolce e al tempo stesso decisa nelle sue convinzioni; Alberto Mancioppì nella parte complessa di Hans e Giulio Bosetti nella misurata apparizione quale vescovo Von Golen, Marina Bonfigli efficacissima nella duplice veste, Luca Pucci, Silvia Settecasi, Mauro Goldsan, Guglielmo Paialunga, Ubaldo Lo Presti, Giorgio Favretto, Giancarlo Santelli.
Giovanni Lombardi, Paese Sera, Roma, 27 Luglio 1977
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