Lo scrittore che fa il processo a Dio
Elie Wiesei: il testimone che viene dalla « notte » di Auschwitz. Elie Wiesei: lo scrittore che, nei suoi libri, ha osato intentare un processo a Dio. Mi dice, lui candidato al Nobel per la letteratura: « Io non ho mai giocato con le parole. Io non scrivo con le parole, ma contro le parole. Ogni frase che riesco a mettere insieme rappresenta per me, sempre, un'altra frase che non posso scrivere. I miei libri sono come iceberg che affiorano sul mare del silenzio ».
Una breve pausa, quindi aggiunge: « Anche con la vita non ho mai giocato. Da bambino sono stato un cercatore di Dio. Poi, su di me, è calata la « notte » di Auschwitz, di Birkenau, di Bruckenwald: quella lunghissima « notte » sinistramente illuminata dalle fiamme che uscivano dai camini dei forni crematori. Adesso, ogni momento di vita, per me è un momento di grazia, perché non so come sono vivo, come mai sono qui a parlare con te. Penso, infatti, che qualcun altro avrebbe potuto benissimo essere al mio posto. Io sono sopravvissuto per caso. Io non ho fatto niente per sopravvivere. Io ho visto in faccia la morte, l'ho vista venirmi incontro, ma lei, chissà perché, si è girata da un'altra parte. Chi ha vissuto quello che io ho vissuto, non può scrivere per giocare con le parole, per divertire la gente. La mia parte può essere solo quella del testimone che la morte ha lasciato da parte. Io scrivo per disturbare, non per rassicurare ».
« Solo per questo? ».
« Scavando più a fondo, potrei dire che, in assoluto, io scrivo per comprendere, non per essere compreso. Io voglio capire perché è accaduto quello che è accaduto, ma più vado avanti e più temo che non capirò mai ».
« Quanti libri hai scritto finora? ».
« Venticinque. In uno di essi, il romanzo II mendicante dì Gerusalemme, ho raccontato di una comunità ebraica dell'Europa occidentale dove i marxisti hanno massacrato tutti meno uno studente. A questo punto, fanno fuoco su di lui, ma non riescono a ucciderlo. Allora un ufficiale gli si accosta e gli domanda: « Perché non muori? ». Lo studente risponde: « Io non posso morire: sono l'ultimo sopravvissuto e devo testimoniare su quanto è accaduto ». « Testimoniare per chi? », ribatte l'ufficiale. « Tu sei pazzo. La testimonianza non servirà a nulla, perché nessuno ti crederà ».
« Chi è Elie Wiesel? ».
« Credo di essere l'ultimo sopravvissuto ».
« Dunque un pazzo? ».
«Forse. Non lo so».
« Per chi scrivi? ».
« La mia testimonianza non è per i morti, perché per loro è troppo tardi. Non è nemmeno per noi, i sopravvissuti, perché anche per noi è troppo tardi. Scrivo per i giovani, per i bambini, per gli innocenti. Scrivo per loro, perché hanno il diritto di sapere ».
« A quale scopo? ».
« Io insegno all'università e amo i giovani, perché sono disperati e non lo sanno, perché noi li rendiamo responsabili di un mondo che non hanno creato. Io penso che proprio perché c'è stata Auschwitz, il mondo merita di morire. Nello stesso tempo, penso che proprio perché c'è stata Auschwitz il mondo non deve morire. E' un paradosso: il ricordo di Auschwitz può salvare da una catastrofe che potrebbe davvero essere l'ultima ».
« Credi ancora in Dio? ».
« Mi è difficile rispondere a questa domanda. Se dicessi che credo come nell'infanzia, mentirei. Ma se dicessi che non credo, mentirei lo stesso. La verità è che la mia fede ha attraversato la « notte » e ne è stata contaminata. In un certo senso, è ancora più bruciante di un tempo. E tuttavia la « notte » è lì, non posso eliminarla. Quello che tento dì fare con le parole è di esprimere tutta la collera e la disperazione dei credenti. Io posso vivere con Dio. Posso vivere contro Dio. Assolutamente non posso vivere senza Dio. Il problema è come si possa credere in Dio dopo che la « notte » è passata su di noi ».
DOPO IL DILUVIO
« E' il problema dei sopravvissuti all'Olocausto? ».
« No », risponde Elie Wiesel. « Questo problema abbraccia tutta l'umanità. Con l'avvento della « notte » c'è stata una rottura nella creazione, e da allora le cose non sono più le stesse per nessuno, perché una crisi di quelle proporzioni comporta necessariamente una crisi teologica. Noi ne scontiamo ancora le conseguenze ».
« In che senso? ».
« In tutti i sensi. Quando entra in crisi la fede in Dio, tutto è possibile. Negli ultimi tempi, per esempio, si è verificato un fenomeno nuovo. Ancora dieci anni fa, si poteva mettere in discussione un popolo, decretarne la morte. Adesso sappiamo che quando si attenta all'esistenza di un popolo, qualunque esso sia, anche gli altri popoli sono in pericolo ».
« Una conseguenza, a distanza, di Auschwitz? ».
« Di Auschwitz e degli orrori che sono venuti in seguito, dalla Cambogia aUa Palestina. Noi cominciamo appena a renderci conto che non ha più senso la divisione dei popoli; che non ha più senso parlare di ebrei, di musulmani, di cristiani... Io penso che dopo il diluvio sopravvisse una sola famiglia a cui spettò il compito di ricostruire il genere umano. Ebbene, dopo il diluvio di fuoco di quarant'anni fa, di nuovo siamo tornati a essere una sola famiglia. Tocca a noi, adesso, salvarci o perderci per sempre ».
« Come? ».
« li mio pensiero è che occorrerebbe intenderci al di fuori di qualsiasi categoria politica, al di fuori delle religioni politicizzate che ammettono la divisione dell'umanità. La divisione conduce alla morte. E' venuto il momento in cui tutti gli uomini devono sentirsi veramente fratelli, e fratelli accomunati nel medesimo destino di vita o di morte. Io penso che questo in cui viviamo è il tempo di Dio e dell'uomo che si affrontano allo scoperto in un processo metafìsico nel quale contano le domande, non le risposte ».
SFIDA ESISTENZIALE
Elie Wiesel è venuto in Italia per la presentazione del suo ultimo libro tradotto nella nostra lingua: Celebrazione hassidica (Spirali edizioni). E' un 'opera nella quale vengono rievocate liberamente leggende e figure dell'hassidismo, il movimento religioso sorto nel Settecento tra il popolo ebraico disperso ai confini dell'Europa centrale e orientale. E' stato questo popolo una delle grandi vittime dell'Olocausto decretato da Hitler. Wiesel scrive: "L'hassidismo che predicava la fratellanza e la riconciliazione divenne l'altare su cui fu immolato un intero popolo. A volte il bambino che è in me mi dice che il mondo non meritava questa Legge, questo amore, questo messaggio di spiritualità, questo canto che accompagna l'uomo sulla sua strada solitària; il mondo non meritava le favole e le parabole che gli hassidim gli raccontavano, per questo furono i primi a essere designati per la voragine ».
Domando: « Sei ancora un hassid? ».
« Potrei essere qualcosa di diverso? », risponde Elie Wiesel.
« Qual'è, secondo te, il messaggio delThassidismo che può trovare ancora un ascolto nell'uomo? ».
« Io penso, come pensava Kerkegaard, che ciò che da all'uomo la sua umanità, è la disperazione esistenziale dell'anima che cerca e interroga Dio. E' per questa disperazione che amo i maestri dell'hassidismo, e li amo di un amore appassionato perché essi, nonostante le disperazioni personali che li travagliano, riuscirono mirabilmente a salvare negli altri la fede e la speranza ».
« Secondo te, questa salvezza è una cosa importante? ».
« In un mio romanzo, ho descritto un uomo il quale, in un Paese comunista, viene rinchiuso in una cella insieme con un pazzo. E' una convivenza impossibile. L'uomo presto si accorge che se non inventa qualcosa diventerà pazzo anche lui. E allora, che cosa fa? Per salvare se stesso, si mette a guarire il pazzo. Ecco: questo è il nodo dei maestri dell'hassidismo. E io penso che sia anche il nodo del testimone, dello scrittore che sono diventato ».
« Shakespeare diceva che il mondo è dominato dalla follia, che l'uomo è pazzo, che la vita non è altro che il sogno di un pazzo. Nel Macbeth, egli mette in bocca al protagonista della tragedia questa terribile battuta: "Sono stanco del sole". Non accade mai a Elie Wiesel di sentirsi stanco del sole? ».
« Un testimone non può essere stanco del sole. E nemmeno dell'ombra ».
« Come sei diventato scrittore? ».
« Per caso. Dopo Buchenwald, io non volli tornare al mio paese, in Transilvania. Che senso avrebbe avuto quel ritorno? Mio padre era morto prima che gli americani arrivassero a liberarci, mia madre e la mia adorata sorellina Zipporà erano state incenerite nel forno di Auschwitz, quasi tutti i membri della comunità in cui ero nato ed ero stato felice non erano sopravvissuti allo sterminio. Mi accolse la Francia, insieme con i quattrocento ragazzi ebrei scampati a Buchenwald. E in Francia divenni giornalista. Così un giorno mi capitò di andare a fare un'intervista a Francois Mauriac, accademico di Francia, Nobel per la letteratura, maestro del pensiero... ».
« Perché proprio Mauriac? ».
« Mi incuriosiva il personaggio, avevo imparato a stimarlo per la passione e il coraggio con cui si batteva contro la guerra in Algeria. Quell'incontro dovette avvenire sotto il segno della grazia. Cattolico militante, fedele a Cristo, Mauriac mi parlò più di Cristo che di cristianesimo. A un certo punto mi confessò: "Le dico una cosa che non ho mai detto a nessuno: dieci anni fa, durante l'occupazione tedesca, ho conosciuto centinaia di bambini ebrei. Cioè: non li ho conosciuti personalmente, ma me li ha descritti mia moglie, che li aveva visti alla stazione, chiusi nei vagoni piombati. Noi allora non sapevamo niente dei metodi di sterminio dei nazisti, non potevamo nemmeno immaginare che quei bambini sarebbero andati a rifornire le camere a gas e i crematori... Ma l'ignoranza può essere una scusa? Ciascuno di quei bambini ha sofferto più di Cristo, e non se ne sa il perché".
« Mentre parlava », prosegue Elie Wiesel « Mauriac non riusciva a trattenere la commozione, le lacrime gli gonfiavano gli occhi. Allora qualcosa scattò in me. Gli dissi: "Anch'io ero uno di quei bambini". Mauriac non rispose. Per moltissimo tempo continuò a piangere in silenzio. Io lo guardavo imbarazzato. Non sapevo come comportarmi. Poi, a poco a poco, il colloquio riprese e lui, il Premio Nobel, mi domandò perché non scrivevo per dare agli uomini la mia testimonianza ».
« E poi? ».
« Un anno dopo mandai a Mauriac il manoscritto de La notte, in francese. Lui lo lesse, e lo portò personalmente all'editore ohe lo ha stampato. Il libro è uscito con una prefazione, bellissima, dello stesso Mauriac. E' stato così che io, un testimone ebreo, sono diventato scrittore all'ombra di un maestro cattolico. In seguito, finché è vissuto, Mauriac ha seguito la mia carriera letteraria con costante amicizia e con un partecipe sguardo fraterno. Naturalmente, ci siamo incontrati di nuovo molte altre volte, ma non abbiamo mai parlato delle nostre esperienze ».
« Perché hai scelto il francese per scrivere ha notte? ».
« La Francia è il Paese che mi ha accolto dopo Buchenwald. Per me, che mi considero ancora un ebreo della Diaspora, prima ancora che una lingua il francese è stato un rifugio, una patria. Ne ho fatto la mia lingua letteraria per rispondere a quella che potrei anche chiamare una sfida esistenziale. Tutti i miei libri li ho scritti in francese, e non ho intenzione di cambiare ».
« Ma vivi e insegni negli Stati Uniti, dove ti esprimi in inglese... ».
« L'inglese è la lingua dell'uomo Wiesel, non quella dello scrittore ».
«E' TUTTO VERO»
« Ciò che racconti ne ha notte è tutto rigorosamente vero? ».
« Nel modo più assoluto. Ho scritto il libro prima in jiddish, la lingua della mia infanzia, e l'ho pubblicato a Buenos Aires col titolo E il mondo ha taciuto. Era il 1956. Dopo l'incontro con Mauriac l'ho riscritto interamente in francese, riducendo a un centinaio di pagine le ottocento iniziali. Ho fatto questo lavoro tremendo per essere sicuro che ogni parola avesse il sigillo della verità. ha notte è il fondamento di tutta la mia opera di scrittore, ma è anche l'unico dei miei libri in cui parlo dell'esperienza che ho vissuto nei campi di sterminio nazisti. Non lo considero un testo letterario, perché questa esperienza si situa al di là del linguaggio ».
Lo scrittore Elie Wiesel è conosciuto e tradotto pressoché in tutto il mondo. Da noi, si deve specialmene a una piccola casa editrice fiorentina, la Giuntina, se ha avuto finora la possibilità di trovare un ascolto. Presso questa casa editrice, nelle ottime versioni di Daniel Vogelmann, sono infatti usciti La notte, il romanzo Il testamento di un poeta ebreo assassinato, i racconti L'ebreo errante, il dramma Il processo di Shamgorod, che fino al 4 settembre si rappresenta a San Miniato (è il testo scelto dall'Istituto del Dramma Popolare per la XXXVII Festa del Teatro).
In questo dramma, sullo sfondo di1 un antico programma, Wiesel mette in scena un autentico processo contro Dio. Il tema dell'opera è questo: o Dio è responsabile di quello che accade nel mondo, o non lo è. Se lo è, giudichiamolo, perché le nostre sofferenze ce ne danno il diritto; se non lo è, allora è tempo che smetta di giudicarci.
IL MALE E LA PACE
Il processo di Shamgorod è un testo di un'attualità bruciante. Scegliendolo, l'Istituto del Dramma Popolare è tornato, in un certo senso, alle origini, quando a San Miniato venivano rappresentate opere come Assassinio nella Cattedrale di T.S. Eliot o L'ultima al patibolo di Georges Bernanos, cioè opere in cui un alto messaggio spirituale reca il segno inconfondibile dell'arte. E non è forse a caso che a dare spazio alla parola di un testimone ebreo siano dei cattolici.
E' la prima volta che il dramma di Elie Wiesel viene rappresentato in Italia (la regia è di Roberto Guicciardini). In Francia lo hanno già dato in televisione e in teatro. E' stato inoltre recitato a Oslo, e negli Stati Uniti è nel reportorio di alcune compagnie universitarie.
« Perché l'ho scritto? », mi dice Elie Wiesel. « Io non posso rassegnarmi al male. Non lo accetto, e per questo lo contesto a Dio. Qualunque spiegazione della presenza del male nel mondo mi suona falsa. Io penso che, all'interno della religiosità, si possa e si debba interrogare Dio, fargli insomma quello che vorgalmente si dice un processo ».
« Un'ultima domanda: oltre che al Nobel per la letteratura, tu sei stato candidato anche al Nobel per la pace. Per quale motivo? ».
« Questa è un'altra storia », risponde Elie Wiesel. « Nella vita quotidiana, io ho combattuto e combatto una sola battaglia: quella per la pace. Ma battersi per la pace significa denunciare il male. Nel 1965, tra l'altro, io ho scritto un libro, Gli ebrei del silenzio, che è la prima testimonianza delle persecuzioni a cui sono soggetti gli ebrei nell'Unione Sovietica. E si intende che il silenzio che io denuncio è quello degli ebrei di fuori, del mondo intero, che tacciono sulle sofferenze dei propri fratelli. La "notte" di Auschwitz mi ha insegnato che questo silenzio è una colpa ».
Giuseppe Grieco Gente, Milano, 9 Settembre 1983
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