Un microcosmo avvolto nelle tenebre della menzogna e della mediocrità
«Fare lo scrittore non è più un mestiere: è un'avventura spirituale. E tutte le avventure spirituali sono dei calvari. E un calvario è stato scrivere L'impostura. Mi è costato una grande pena. Ne sono uscito dilaniato». Sono parole di Georges Bernanos, a proposito di questa che è la sua seconda opera narrativa e che si sarebbe dovuta intitolare Les ténèbres (1923), testo incentrato sulla figura di un prete (l'abate Cénabre), che prende coscienza di aver perso o forse di non aver mai avuto una fede vera. L'Autore, costretto per pari motivi a rinunciare al progetto iniziale, aveva finito col dividere Les ténèbres in due romanzi: La Joie e, appunto, L'impostura. Ed è quest'ultima, nella sceneggiatura di Pascal Bonitzer e Gerard Wajcman e per la regia di Brigitte Jacques, che si rappresenta alla 43.ma Festa del Teatro a San Miniato.
È la terza volta che Bernanos viene ospitato nei suggestivi spazi sanminiatesi. Marco Bongioanni presentando alla stampa la nuova edizione di quella che ha definito «una festa non dell'effìmero», ha invitato i presenti a riconoscere nelle vicende del palcoscenico se stessi, con le proprie inquietudini e i propri dubbi, a cercare di cogliere il vero senso de L'impostura, un problema che tocca tutti, credenti e non credenti. Dirà Cénabre: «Arriva il momento in cui, all'individuo, la vita pesa sulle spalle e si vorrebbe buttare via il fardello. È allora che la menzogna sembra dare la libertà di godere senza ristrettezze; ma se la verità rende lìberi, mette però dure condizioni, mentre la menzogna non ne impone nessuna».
È una scelta che l'abate dice di aver tentato, non riuscendo più a sopportare le punte ispide della sua sofferenza e dei suoi, dubbi.
È questa l'ossatura portante del dramma che si svolge nella Parigi anni '30 e si sviluppa in una sequenza di «scene notturne», dove gli eventi realistici sono pretesti alla ricerca di situazioni esistenziali, viaggi nel mistero e nella notte dello spirito.
L'argomento, difficile da trattare in poche parole, è facilissimo da sintetizzare nel suo stesso titolo o in una battuta della prima scena: «Le vocazioni mancate creano individui mediocri». Ed eccone i ritratti: anonimi portatori di angoscie esistenziali, intellettuali che hanno, per orgoglio o superbia della posizione conquistata, impoverito, dimenticato la loro fede che si è come opacizzata. Il salotto dove si incontrano appare come una specie di corte dei miracoli dei mali spirituali degli esseri viventi, espressi da isterici simboli di varia umanità: intellettuali falliti e invidiosi, uomini di potere ipocriti e disgustosamente infidi. L'universo di Bernanos è nei luoghi del nord della Francia, ma la gente è quella che fa parte di ogni società: individui travagliati su cui l'autore compie i suoi sondaggi psicologici, scavando nel profondo, dove si svolge la lotta tra gli impulsi più riposti dell'essere: la santità e la dannazione. Per questo mette loro in bocca quelle terribili collere e quegli insulti brucianti che fecero dire di lui: «Bernanos è figlio del tuono» e che gli attori hanno tentato di rendere con toni e gesti un po' sopra le righe. Ciascuno di loro ha avuto anche il suo momento di caduta (in senso letterale), il cui significato non è sfuggito: più che cadere, cedono, esprimendo il loro strazio interiore, la loro verità dilaniata e nascosta. Così l'abate Cénabre (Roberto Herlitzka), il suo maestro, indifeso e sprovveduto (Antonio Pierfederici), così Framboise (Mario Maranzanaj, colorita e inquietante figura di barbone. Un personaggio quasi zavattiniano che Cénabre, incontra nel terzo notturno, mentre dipinge la sua vita — disordinata come il suo abbigliamento — con espressioni ora sarcastiche ora violente...
E violenti sono gli scontri, anche verbali, dei protagonisti, continuamente in dissidio con se stessi e gli altri, vittime e carnefici tra la disperazione e la «dolce speranza».
A Brigitte Jacques, la regista, che, nel marzo di quest'anno ha presentato con successo ---L'impostura--- per il Théàtre de La Ville (scene e costumi di Emmanuel Peduzzi, musiche di Marc Oliver Dupìn), è stato chiesto di portare a San Miniato l'allestimento così come era stato presentato a Parigi. Ma il cast doveva essere italiano: c'è da pensare che, non conoscendo lei la nostra lingua e non tutti gli interpreti la sua e i tempi di prova essendo troppo brevi, i problemi non siano mancati. Alla fine, però, lo spettacolo vive e si impone. La sorridente Brigitte, richiesta della sua opinione sul protagonista, l'abate che va cercando la fede perduta mostrando, fin dalla prima scena, una sua sacrilega incoerenza, pur non rinunciando alla sua mediazione sacerdotale, così si è espressa: «i personaggi de L'impostura non sono così frequenti nel nostro quotidiano, anche se negli ambienti del potere e in qualsivoglia settore sociale, esistono persone favorevoli al compromesso e a quella mediocrità che conduce al rifiuto del soprannaturale, cioè alla negazione dell'amore, aprendo la strada a "nuovi vangeli", i cui risultati portano a dubitare della giustizia e della libertà, cioè dell'uomo».
Ma il reverendo Cénabre, che sfoga il suo livore contro il giovane giornalista Perrichon (Franco Catellano), impreparato ad affrontare il mondo degli intrighi professionali, che morirà per non poter sopportare l'impostura del mondo intorno a lui, illuso e deluso, non ha mai un suo spicchio di luce? Sì, forse quando incontra Chantal o l'abate Chevance «dal cuore candido e puro», o quando, in una simbolica confessione, si confida a un bambino. Bernanos stesso non si è saputo rispondere: «Scritta l'ultima riga, ignoravo ancora se Cénabre fosse o no un impostore. Lo ignoro tuttora, perciò ho smesso di interrogarmi in proposito. Pochi sono gli uomini che, ad un certo momento della vita, confusi per la debolezza e i vizi loro propri, incapaci di farvi fronte, di superare l'umiliazione redentrice, non sono stati tentati a sgusciar fuori da sé stessi, in punta di piedi».
Così, alla fine dello spettacolo, cì è venuta voglia di ripetere quanto aveva scritto l'Autore in Les enfants humiliés, e cioè che preferiremmo incontrare sempre e solo gli impostori sulla scena, piuttosto che in platea.
BIANCAMARIA CESCHIN, L'Osservatore Romano 29 luglio 1989
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