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Il Corriere Cesenate - La recensione di Baroni
 

Il teatro accoglie la storia dei Templari
La storia dei Templari è stata elevata a teatro. Per rileggere, più che le singole gesta dei monaci soldati, uno spaccato di vita medinevale con tutti i problemi che l'agitarono: epoca buia, di grandi lotte per il potere, di scontri sociali e di ansie millenaristiche. Siamo nel marzo del 1310: dal 13 ottobre di tre anni prima, è in atto lo scontro tra Filippo il Bello, re di Francia, e l'Ordine dei «Templari», sorto all'epoca delle Crociate per la conquista dei Luoghi Santi. I Templari sono accusati di eresia, di idolatria, di sodomia e di altre pratiche immonde, e contro di essi è stato imbastito un processo che si concluderà con la confisca dei loro beni e la condanna al rogo del Gran Maestro dell'Ordine, Jacques de Molay, che verrà giustiziato il 18 marzo del 1314 su un'isola della Senna. Questo il contesto storico del dramma che Elena Bono inventa in una vecchia magione segreto sulla costa tirrenica, e che San Miniato ha scelto per il suo Festival che da oltre mezzo secolo - passando per grandi capolavori e registi come Streheler e Costa - costruisce, attraverso il teatro, un ponte immaginario tra «terra e cielo». Così sui due piani di una torre ben riprodotta sulla storica piazza del Duomo si celebra il lungo scontro-incontro tra l'Uomo Nero, colui che ha tradito i Templari del Circeo, rivelandone la Magione e consentendone l'arresto e il Precettore Templare, rappresentante del clero. E mentre i due «duellano» con una dialettica serrata e sottile, sotto si consuma l'agonia di Àmedeus Waldemburg, giovane e vonlente novizio tra i monaci-soldatì, ferito a morte per aver tentato di opporsi al suo arresto e dei suoi confratelli. Due spaccati a confronto, che si alternano sul gioco delle luci, accompagnati dai canti che provengono dalle celle dei pvogionierì templari e dei pirati saraceni: la natura ferina del gioco politicò e l'idealità dei migliori. Sulla regia semplice e senza pretese di Giuseppe Manzari - che vorrebbe ricordare le messinscene di Orazio Costa - si muovono le due storie parallele per oltre due ore: la lotta dei potenti tra lunghi e prolissi monologhi e quella del bel cavaliere, accudito dalle mani amorevoli de La Gisa e dalle braccia possenti e rozze di Rocco da Sezze, mentre il piccolo Alì, canta e balla strappando al pubblico qualche sorriso, E quest'ultima è la storia che regge il dramma, che rende piacevole lo sguardo della Bono sul mondo Templare e che teatralmente funziona. In uno spettacolo sostanzialmente debole nonostante la bravura di Massimo Foschi che fa emergere quella che doveva essere la figura in secondo piano, Rocco da Sezze, furbo e vile, di contrasto all'animo de La Gisa - nella buona interpretazione di Maria Elena Camaiori - che accetterà la morte con coraggio. Ottimo anche il bel Mattia Battistini nel giovane Amadeus, mentre il mestiere di Marco Spiga e Umberto Ceriani - rispettivamente Precettore e Uomo Nero - non paga la pesantezza teatrale del loro confronto. Più «popolare» nelle battute finali, poco prima che bagliori e fiamme spengano nella morte il dramma nella vecchia magione, mentre un'ultima volta si ode la voce del piccolo Alì (Federico Orsetti) che prega per Gesù e per Allah. Belle le musiche.
Carlo Baroni, Il Corriere Censenate, 26 luglio 2002




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