La recensione
Un canto di umana tristezza e di implorante bisogno d'assoluto
«A cinquantanove anni, il tempo di morire è venuto» sentenzia, nel tranquillo mattino della sua vita, una diciottenne novizia carmelitana, Suor Costanza, forse la più cordiale fra le tante figure femminili del dramma; e il suo riduttore Albert Béguin insiste nel notare che l'autore, Georges Bernanos, scrivendolo appunto a cinquantanove anni, sapeva di essere prossimo, per un male senza rimedio, alla morte.
Come accennammo lo scorso luglio, da Parigi, ai nostri lettori, Bernanos in questi Dialoghi delle Carmelitane che andava stendendo non già per la scena ma per un firn tratto dal racconto di Geltrude Le Fort: L'ultima al patibolo, accoratamente e stupendamente vi espresse, quasi in un testamento spirituale, la sua personale tragedia, di credente proteso al superamento dell'angoscioso terrore della Morte che lo aveva ossessionato per tutta la vita: di quella Morte che, come egli amava ripetere, aveva spaventato nel Getsemani lo stesso Gesù. E qui è la singolarità del successo, non soltanto parigino ma europeo di questo dramma cristiano; nelle insospettate risonanze che esso va suscitando fra tanto e sì diverso pubblico del tempo nostro, puntando non già (contro i frequenti inviti di tanti contemporanei) sulla ovvia attualità degli appelli fraterni, solidali, sociali, contenuti nell'eterno messaggio evangelico, bensì su un desiderio di ascesi, sulle ineffabili certezze della preghiera, insomma sugli intimi rapporti degli individui con Dio e insieme sugli arcani motivi della comunione delle anime nei misteriosi scambi, fra deboli e forti, di virtù e di defezioni, di espiazione e di conquiste.
Ma oggi non torniamo a raccontare qui le vicende delle sedici Carmelitane di Compiégne giustiziate nel 1794 dagli ultimi Tribunali della Rivoluzione francese e beatificate da Pio X al principio di questo secolo. Semmai ricorderemo le principalissime figure che la romanziera tedesca, riprendendone la storia, ha tratteggiato fra esse, più o meno a suo modo. Una è quella dell'illuminata Priora che, essendosi proposta per tutta la vita la serena acccttazione della morte, al momento del trapasso muore «male» e cioè fra sussulti e spaventi e deliri anche a causa delle allucinanti visioni della catastrofe che sta per abbattersi sul convento e su tutta la Chiesa.
Tutta all'opposto la Priora che le succede: una donna semplice, positiva, nemica di esaltazioni non rispondenti alla pacatezza della fede: ma che, a suo tempo, accoglierà con ferma acccttazione il martirio di cui ha sempre respinto il desiderio. Desiderio, invece, provato sinceramente da un'altra monaca, la Vicepriora: stirpe di aristocratici, fervida fin quasi al fanatismo, al punto di indurre tutte le sue compagne ad offrirsi per voto al patibolo: e sarà proprio lei l'unica delle scampate.
Poi fra le altre, c'è la novizia, di cui si è già fatto il nome, suor Costanza, buon sangue paesano, serva devota del Signore che è nei Cicli, ma tenendo con gusto i piedi su questa terra creata da Lui: essa parla e agisce come certe creature di Péguy, e infine, inventata dalla fantasia della Le Fort, c'è un'altra novizia, suor Bianca dell'Agonia di Gesù: giovinetta di gran lignaggio, fattasi monaca per paura del mondo e di se stessa, terrorizzata precisamente dall'insostenibile pensiero della morte: al momento della persecuzione, ella fugge e s'apparta. Ma quando, di tra la folla assiepata intorno alla ghigliottina, ella intende il canto della Salve Regina che, intonato dalle sue compagne, smuore e si spegne via via che le teste delle martiri sono recise, d'improvviso è rianimata,
pacificata, vittoriosa dei suoi terrori; e, raccogliendo e ravvivando, da sola, quel canto a voce spiegata, ascende volontaria il patibolo e s'immola dietro le altre.
Riconoscere l'intimo, e ben teatrale, effetto di questa eroica conclusione, e di altre culminanti scene dell'opera, non esclude l'ammettere che Bernanos non ha dato a questi suoi Dialoghi il taglio e la prospettiva d'un dramma vero e proprio. Il loro fascino emana essenzialmente dalle brevi, o lunghe, o talvolta lunghissime proposizioni delle nuove figure, fra cui forse la protagonista, suor Bianca, non è quella disegnata con linee meglio decise, ma nelle cui parole Bernanos, con ricorrenti e insistenti motivi quasi sinfonici, ha intonato il canto personale delle sue terrene tristezze, del suo smisurato bisogno d'assoluto, del suo implorare la grazia, della sua faticata ma consolante riscoperta delle tracce divine fra le torbide avventure d'una terra insanguinata.
È d'una tale conquista che naturalmente si può e si deve chieder conto agli audaci, i quali si attentano a prospettare sulla scena le espressioni di una così alta spiritualità.
A Parigi la Signora Tassencourt, assumendo come testo la fedele riduzione di Albert Béguin, si è attenuta a criteri d'una nuda linearità: non più di ventun personaggi, e un rapidissimo succedersi di quadri sintetici, volta per volta svelati o occultati da un siparietto per gli «esterni». Qui a San Miniato per l'annuale «Festa del Teatro» indetta dal giovine e generoso «Istituto del Dramma Popolare», Orazio Costa si è allogato nel vetusto tempio di San Francesco: e vi ha inserito, con felicissima aderenza alla sobrietà dell'architettura del tempio, il suo prediletto palco a gradinate e piani sovrapposti: sede astratta d'una azione assai varia, per una quantità di luoghi, esterni ed interni. Col che non ha tradito l'essenziale semplicità della linea, ma ha tuttavia ceduto spesso agli allettamenti anche spettacolari, offertigli dalla vastità dello spazio; ed ha profittato del solenne ambiente chiesastico, per inquadrare i dialoghi con abbondanti (in qualche punto, sovrabbondanti) canti religiosi, e addirittura liturgici.
Attori, i meglio apprezzati, fra reclute e anziani del «Piccolo Teatro della Città di Roma»: nelle primissime Evi Maltagliati, che nella sagoma della priora illuminata, trascorse dai più augusti annunci della Parola divina alle terrificanti suggestioni della tragica morte; e Ave Ninchi, corposa, incisiva, nella umana e anche sovrumana saggezza della nuova priora. Anna Maria Miserocchi risolse con delicato pudore il disegno, alquanto sfocato nel testo, della tormentata protagonista, suor Bianca dell'Agonia di Gesù, ed Edmonda Aldini apparve vittoriosamente comunicativa nella schiettezza di suor Costanza, la novizia gioconda. Degli altri innumerevoli ricorderemo il solido Carraro come cappellano, il sobrio Busoni come padre di suor Bianca, Miranda Campa nelle diritte linee della mistica vicepriora. Bene le masse, gli aggruppamenti, le luci, i costumi di Valeria Costa, i cori diretti da Castone Tosato. Spettacolo fedele allo spirito del testo, e anche perciò alla tradizione di San Miniato; a togliere qualche eccessivo indugio sulle sue parti visive e musicali, diverrà perfetto. Superfluo dire del successo riportato fra il bellissimo pubblico accorso in folla, nonostante il maltempo, da tutta la regione.
SILVIO D'AMICO, Il Tempo, Roma, 18 Settembre 1952
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