La favola si fa realtà riscoprendo il valore del quotidiano
Gilbert Keith Chesterton (Londra 1874-1936) fu narratore, critico, storico, giornalista, polemista cattolico. Si ricordano i suoi Heretics, Orthodoxy, La Sfera e la Croce (1916). Negli anni giovanili si dedicò essenzialmente alla produzione poetica che fu abbondante e variegata, ma è nel 1902 che ottiene sul «Daily News» la sua tribuna personale, «Il pulpito del sabato», dove comincia a forgiare le armi per i suoi temi preferiti: difesa del «piccolo», inteso politicamente ed esistenzialmente, avversione per ogni forma di totalitarismo, dall'imperialismo britannico al socialismo; attualizzazione dei valori più genuini della tradizione. Dopo alcuni anni di confessato agnosticismo, perfino di indifferenza, maturò una personale religiosità che l'avrebbe inevitabilmente condotto alla fede cattolica. Il suo nome divenne popolare per merito di Father Brown, quel Padre Brown che ha dato spunto anche a dei celebri film, come quello interpretato da Alec Guinness nel 1954. Una maturità narrativa l'autore aveva già dimostrato nel 1908, pubblicando The man who was thursday (che fece il giro dei palcoscenici mitteleuropei per decenni), dove muove abilmente sei personaggi, ciascuno dei quali è designato col nome di un giorno della settimana. Ne è risultato — come scrive l'ottimo traduttore di Magic, Saverio Simonelli, nella sua nota biografica — un quadro luminescente e paradossale della solitudine e delle inquietudini dell'uomo moderno. Chesterton stesso, scrivendo di sé, analizza e tenta quasi di giustificare il senso della sua esistenza di artista, apparentemente normalissima e invece specchio di mezzo secolo di vita britannica culturale, sociale e politica: «una vita non facile, fatta di scandali, di iperboli intellettuali, di quotidiane amenità».
Con la rappresentazione di Magic, in prima nazionale, si è inaugurato il 21 luglio la XLIX Festa del Teatro Popolare a San Miniato: operazione con cui l'Istituto del Dramma popolare, diretto dall'attivo Don Luciano Marrucci, ha voluto non solo tributare un omaggio al grande narratore e saggista cattolico, ma anche far conoscere al pubblico contemporaneo un testo fino ad oggi noto a ben pochi. Magic è una pièce fantastica: un medico positivista, un duca estroso, un mago, un prete filantropo, una fanciulla imbevuta di leggende celtiche, e, accanto a loro, un solerte segretario e un nipote tornato dall'America, messi dall'autore di fronte all'evidenza di un fatto che disorienta non solo la loro razionalità, ma anche quella del pubblico. Esiste un carteggio dove si ha modo di verificare che fu G. B. Shaw a convincere il suo «avversario ideologico» a scrivere per il teatro. Accettata la sfida, che altro poteva produrre una mente eclettica come quella di Chesterton, che drammaturgo non era e tale non si sentiva? Non delle commedie, ma delle idee drammatizzate, per il gusto di vederle cozzare tra di loro, come in un dibattito. Certo non è facile, per l'attore che oggi interpreti Magic, spersonalizzarsi. Se, ad esempio, il ruolo di pastore d'anime, Cyril Smith (Marco Carbonaro) non lo si interpreta con coinvolgimento reale nella situazione, si potrebbe dire quasi visceralmente, il pubblico non potrà mai captare il significato reale di certe battute o interessarsi ai messaggi spirituali che egli comunica. Dice, ad un certo punto: «Il dubbio può essere pazzia quanto la fede». E altrove: «Porre interrogativi è forse una malattia come affermare una dottrina. Che cosa deriva da questo porsi tanti interrogativi? Perché non si può lasciare l'universo com'è? Perché il tuono non può essere Giove, senza che tanti uomini diventino matti a furia di chiedersi: se non è Giove, che cos'è il tuono?». E ancora: «Si parla di mania religiosa. E non può esistere allora una sorta di... mania irreligiosa?». Il riferimento riguarda l'evento centrale dell'opera, che potrebbe essere stato determinato da un gioco di prestigio, ma anche da un intervento soprannaturale. C'è pane per tutti in questo contenitore, ma bisogna assaporarlo con sensibilità e intelligenza. Ce n'è per gli intellettuali e i politici, per i poeti e per i romantici nelle battute rivolte alla nipote Patricia (Chiara Sasso): «Dove sei stata?— Io... io ero nel mio sogno». Il che, detto con la pausa giusta, al momento giusto, dà credibilità al personaggio, che si confida: «Ero... nel paese delle fate». E l'interlocutore: «Dove si trova?— In nessun luogo. — Ha degli abitanti? — Di solito, due: se stessi e la propria ombra. Ma non ho ancora scoperto se lui è la mia ombra o io la sua... — Lui chi? Come si chiama? — Lì, non abbiamo nomi». La ragazza fa qui riferimento all'incontro col mago prestigiatore (Walter da Pozzo), che ha risposto musicalmente al canto della giovane donna in cerca di fate e di elfi nel crepuscolo che le ricorda la sua Irlanda.
Il discorso sulla religione ritorna in vari momenti e noi lo sentiamo come il quesito che, in periodi determinanti della sua vita, Chesterton pose a se stesso, e ora mette in bocca al dottore. Si comincia, anzi, a parlare di miracoli, quasi distrattamente, quando entra in scena il personaggio, una figura importante, che dà carne e fiato a situazioni che noi sappiamo non nate per un gioco scenico, ma come un dibattito drammatizzato. Sono dialoghi di riflessione-provocazione: era questo che piaceva all'autore, e che il traduttore ha rispettato in modo soddisfacente, come fa chi ama un'opera, se ne impossessa anche, ma non la stravolge, non ne inquina lo spirito. È ancora il dottore (nell'ottima interpretazione di Corrado Olmi) a fotografare la situazione della famiglia del duca, dove indubbiamente «c'è qualcosa di strano», dove aleggia una calamità psichica, tanto che il pastore si chiede se la maledizione sia toccata alla ragazza che crede a tutto o al nipote che non crede a nulla o al nonno duca che farfuglia, chiedendosi se, nell'universo, «primo fu il protoplasma o l'anello mancante alle nostre conoscenze». Il dibattito fra il dottore e il pastore Smith si evolve con sottili argomentazioni, così come era avvenuto nella discussione tra Smith e il prestigiatore, convocato dal duca per risolvere i problemi di quella strana famiglia. Già nella presentazione che ne fa il medico, avevamo individuato la personalità del vecchio: «È l'uomo più gentile che si sia conosciuto, ma, cercando di accontentare sempre tutti, finisce con l'accontentare mai nessuno». E quando gli ospiti gli creano problemi, è ben lontano dallo scegliere una soluzione ragionevole, quale potrebbe essere quella di rimandare a casa la nipote, che folleggia in un giardino inglese alla ricerca di elfi irlandesi.
Veramente una soluzione il duca la cerca e la trova — a modo suo interpella un mago o, meglio, un prestigiatore. È come se volesse così accontentare il credente che si interessa di soprannaturale e il non credente che apprezza i giochi e le amenità. Non importa se, alla fine, saranno entrambi insoddisfatti, convinti che si tratti di impostura e non di un miracolo; la cosa piacerà solo e comunque al fantasioso duca. Scegliendo questo ruolo — una parte quasi di contrappunto — Mario Scaccia ci ha un po' sorpreso, ma ben presto, assistendo allo spettacolo, abbiamo compreso i motivi per cui l'attore-regista è rimasto affascinato da un personaggio che, quando appare, travolge gli interlocutori con i suoi estri da vero professionista dello spettacolo, che gioca coi movimenti — inconsulti o pacati, con scoppi di risa o modulazioni di voce, dal frastornato al distratto, dall'affettuoso al condiscendente, esprimendo garbugli di idee. Una presenza — la sua — che, a volte, appare quasi lunare.
Chesterton che fu critico quanto mai arguto nei riguardi dell'autore di Uomo e Superuomo, arrivò a dire: «Show, messo piede sul palcoscenico, con il suo "energetico ottimismo" imbastiva le sue commedie non sul pathos ma sul bathos, cioè sull'enfasi. Per associazione d'idee, pensiamo al Magic attuale, dove la regia ha cercato di sottolineare proprio il pathos; con efficacia, visto la risposta che ne dava il pubblico, divertendosi a certi messaggi che esplodevano come piccoli
fuochi d'artificio e disturbando magari un pò chi aveva colto il significato profondo di certe battute. Lo spettacolo prosegue, tra discussioni, allusioni ironiche e frasi pungenti tra il mago e il nipote Morris (Raffaele Buranelli) venuto dall'America che sostiene che, per ogni evento, esiste una causa che a volte si scopre, a volte no.
«I giochi di prestigio moderni — dice — sono paragonabili agli antichi miracoli, riveduti e corretti». Il pastore controbatte che se un quadro appeso alla parete è falso — come i falsi miracoli — ciò non esclude che l'antenato che vi è ritratto sia esistito davvero. A quel punto si verifica l'evento straordinario: il quadro di cui si parla ondeggia con violenza, le sedie si muovono. Il prestigiatore viene accusato di far uso di fili, di specchi o di qualche marchingegno. Ma le cose continuano ad agitarsi nell'immobilità generale. Quando poi la lanterna che, fin dall'inizio, splendeva di luce rossa nel giardino, assume colorazioni diverse o si spegne procurando, tra lo sgomento generale, un malore allo scettico Morris, si recupera la dimensione magica che il titolo prometteva. La si era assaporata solo nelle prime scene in quel giardino notturno dove era forse iniziata una storia d'amore tra un uomo — che aveva finto di essere un elfo musicale — e una donna che cercava ciò che non c'era tra gli alberi. Peccato che non sempre la colonna musicale renda ciò che lo spettatore si attende. Gli effetti sonori sono importanti, ma non debbono prevalere, semmai solo suggerire o sottolineare i momenti "magici", ricreando l'atmosfera a cui probabilmente l'Autore aveva pensato, nel momento in cui la penna gli scivolava dal favolistico alla realtà, cercando il senso del miracolo quotidiano. In effetti, la chiave dello spettacolo non facile da individuare, tanto è vero che l'A., in fondo, ci lascia in dubbio su tutto: se ciò che è successo è stato davvero un abilissimo gioco di prestigio o una manifestazione del soprannaturale. O forse ci vuol suggerire che solo l'amore può rivelare la verità, anche quando è bugiardo come il prestigiatore? L'insegnamento è forse questo che, per vivere, bisogna distruggere le fate dei sogni, vivere, cioè, solo una favola vera? L'unica possibile può essere la favola d'amore, ma se poi scopri che anche quell'amore è illusione? Meglio fare come il bambino che, se dubita di Babbo Natale non riuscirà a dormire, mentre quello che ci crede si farà tutto un sonno». Senza problemi, dunque? No, ma intanto gli spettatori lasciano il magico spazio — magico in ogni senso, questa volta — di San Miniato con tanti spunti di meditazione e un interrogativo: Magic è stato uno spettacolo di provocazione o uno spettacolo-rimorso?
BIANCAMARIA CESCHIN, Osservatore Romano 28 luglio 1995
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