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Avvenire - La recensione di Odoardo Bertani
 

Quando il Cristo proibito trasforma la sete di vendetta in voglia di riconciliazione
Bruno e Andrea, due amici soldati usciti vivi dalla guerra e da un campo di concentramento russo, tornano a casa, per il contado pisano; l'uno con l'impazienza e l'ancora turbata felicità del reduce, l'altro chiuso in una sua paura rabbiosa e con l'intendimento di scoprire, per ucciderlo, l'autore della spiata che portò all'uccisione, da parte dei tedeschi, del fratello partigiano Giulio. (Una situazione tipica della tragedia classica). Ma nessuno del paese gli svela il nome del traditore; tutti sono stanchi degli odi e dei lutti portati da una guerra nefasta, che li ha colpevolizzati, tutti desiderano la pace, la vita, tutti vogliono dimenticare e perdonare; ed essere perdonati.
Bruno incontra un muro di omertà giustificata, sicché il suo desiderio di giustizia personale lo chiude in un sordo rancore. Finché Padre Antonio — come il popolo chiama un falegname considerato guaritore —, durante la rituale processione del venerdì Santo, non dichiara l'inutilità della vendetta omicida e che solo un olocausto, un sacrificio personale può salvare la società. È il perdono che la redime, restituendola ad una giustizia depurata da ogni sentimento di odio, quale può essere compiuta da un innocente, pronto a farsi agnello per gli altri, ad essere un nuovo Cristo.
E, con l'inganno, fa credere a Bruno di essere stato lui la spia che egli cercava. Con la sua mente ottenebrata, Bruno gli crede e lo ammazza con un'arma improvvisata messagli in mano dallo stesso Antonio. Poi il vero colpevole sarà scoperto ma, davanti a tutto il paese, Bruno rinuncerà all'omicidio e perdonerà. Un grande sudario copre, col bianco dell'innocenza, l'intera comunità.
Questo era il tema che Curzio Malaparte concepì per un romanzo nel 1949, ma che si tradusse in un soggetto cinematografico che vinse nel 1950 il primo premio al Festival di Berlino.
Ora quella sceneggiatura — anzi, la più estesa delle tre allora preparate — è diventata — dopo un rispettoso adattamento compiuto da Ugo Chiti e Massimo Luconi, che hanno tra l'altro conservato lo stile e il sapore linguistico dello scrittore pratese — un copione del Dramma Popolare Italiano adottato per l'annuale Festa del Teatro (e lo si vedrà, verosimilmente, anche a Milano e a Bologna, durante la prossima stagione). Ottima scelta, anche per la connessione del dramma con la realtà locale oltre che per la forza intrigante del tema e, in parallelo, per l'ottica sacrale del suo sviluppo. In effetti, l'amore che deve permeare una società comunemente tesa ad escludere Cristo e la sua legge, è trattato sia nel radicale, proclamato recupero di questa norma universale, sia in una sensibilissima aderenza alla misura reale e contemporanea (problemi sociali compresi) dell'uomo. È una umile vita quotidiana quella che vede angolata nell'opera col suo linguaggio, i suoi gesti, la sua semplicità, i suoi costumi elementari, le sue paure e i suoi misteri.
Quindi Cristo proibito è un testo molto bello, potente, che sale verso la tragedia e la catarsi con un linguaggio di lirica, essenziale fragranza. Esso è un dramma sconvolgente e toccante, ricchissimo di modulazioni, intenso di dibattiti nella scansione caratteriale dei personaggi. È un dramma ruvido e profondo; senza orpelli e tutto mistero e sacralità. Anche, se vogliamo, polemicamente: la tesi è proposta da un attore ufficialmente non religioso.
Si sente l'adesione di Chiti commediografo a questa storia di paese che poi il regista Mario Luconi ha messo in scena con la ben nota compagnia dell'Arca Azzurra, impreziosita dalla partecipazione di attori quali Massimo De Francovich (un lucido e caldo Padre Antonio), di un Claudio Bigagli (intenso e cupo Bruno), e da Lucilla Morlacchi (nella parte sofferta della madre) accanto ai quali sono da ricordare Patrizia Corti, Fernando Maraghino, Massimo Salvianti, Marco Natalucci, Daria Dandi.
Molta attenzione all'ascolto dall'affollatissima platea per questo lavoro in cui si ritrovano i fermenti di un passato storico non perituro di riflessi che ebbero in una fascia sociale proletaria fra la Maremma e Monte Amiata, cioè composta di minatori e contadini ancora legati a moduli arcaici e tuttavia persuasi a ripensarli, ma anche decisa a vincere i dettami del vecchio fato che il nuovo Oreste dibatte in se stesso e supera per sé e tutti.
ODOARDO BERTANI, Avvenire 17 luglio 1994




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