L'ultimo e più impegnato Betti resta ancorato alla terra
Non è stato facile, durante la rappresentazione dell'Aiuola bruciata di Ugo Betti avvenuta a cura dell'Istituto del dramma popolare nella chiesa di San Francesco, orizzontarsi nella selva di motivi umani, morali, politici, religiosi, di cui lo scrittore scomparso ha nutrito questo dramma intorno a cui ha lavorato fino all'ultimo, tanto da far pensare che, se non sulla sua concezione, almeno sulle soluzioni che vi si accennano, abbia potuto influire il pensiero della morte vicina. Ma anche meno facile è, a rappresentazione avvenuta, ritrovare in questa selva tutta ombre proiettate da alti alberi e luci filtrate dai loro rami, ma fitta di oscurità nel sottobosco delle immagini e dei sentimenti che vi si aggrovigliano in modo pressoché inestricabile, ritrovare il sentiero percorso dall'autore nella ricerca di una via di uscita dal labirinto di problemi che tormentavano la sua mente e il suo cuore di uomo giunto al momento di tirare le somme della propria esistenza. D'altra parte, solo ripercorrendo questo sentiero, sarebbe possibile dare un giudizio men che incerto non soltanto sull'opera in sé, ma anche su quello che essa rappresenta, come apertura o meno di una nuova visione della vita rispetto alla precedente opera bettiana.
Quel che si può dire dell'Aiuola Bruciata dopo un esperimento scenico il cui risultato più chiaro è una serie di punti interrogativi, è che in questa opera pustuma un dramma privato, sentito ed espresso con umana concretezza, si innesta a un dramma collettivo simbolico, mantenuto su quella linea di genericità caratteristica del teatro bettiano soprattutto quando, come ne II giuocatore e ne La regina e gli insorti, esso esce dal campo morale e sociale per investire problemi religiosi e politici. E questa fusione del concreto con l'astratto, che sul piano spettacolare si giustifica nel fatto che il dramma privato mira a dare significato ed evidenza a quello collettivo, viceversa toglie alla opera unità ed equilibrio, e sul piano estetico ha un effetto negativo.
Il dramma privato è quello di Giovanni, un uomo politico che ha avuto una parte decisiva nell'esito fortunato d'una rivoluzione da cui il popolo ha tratto un miglioramento della sua vita puramente materiale, il quale s'è ritirato a vivere con la moglie Luisa nella zona di confine con un altro popolo retto da un'ideologia diversa ed avversa, dopo che un loro figlio è morto a quindici anni cadendo da una finestra su una aiuola del cortile. Luisa si tormenta fino ai limiti della pazzia nella ricerca delle responsabiltià di questa morte a cui Giovanni ha dato le apparenze di una disgrazia, sapendo invece che si trattò di un suicidio, come egli rivela alla fine del dramma. E quel suicidio, spiegabile solo in un ragazzo cui la disperazione sia stata ispirata dal di fuori, ha riempito l'animo di Giovanni di domande angosciose sulla reale bontà della causa cui ha dedicato la sua vita di uomo di azione.
Ed ecco che due antichi compagni di lotte, l'ermetico Tomaso e il fanatico Raniero, vengono nel suo rifugio per invitarlo a partecipare ad un incontro sulla linea di confine — costituita da un prato cosparso di fiori come l'aiuola su cui era caduto il ragazzo — con gli uomini dell'altra parte, da cui dovrebbe nascere una intesa tra i due popoli nemici. Giovanni è chiamato a sostituire l'attuale capo del partito, Nicola, il quale s'è dato per gravemente malato poiché teme che l'incontro nasconda un tranello, che il nemico spari ed egli sia la vittima destinata a rendere possibile il tentativo di riconciliazione. Nicola muore ugualmente, fatto fuori dai compagni per la sua funzione; e Giovanni, avvertito della verità da Rosa, una fanciulla animata dalla fede religiosa che affratella gli uomini in Dio, tenta di fuggire. Ma denunciato dalla moglie, che lo accusa della morte del figlio e spinto dalla propria coscienza, ritorna per porre i compagni di fronte alla responsabilità di uomini che governano altri uomini, alla necessità di rendersi conto delle loro azioni e di essere sinceri con se stessi. Conclusione di questo esame di coscienza è che il tentativo si fa ugualmente, ma la prima ad uscire è la fanciulla che si fa olocausto del sacrificio necessario perché gli uomini si riconcilino in un'idea superiore di pace e di fratellanza.
In questo dramma Ugo Betti ha affrontato un argomento più alto e impegnativo di quanto non avesse mai fatto in tutta la sua opera, volta a considerare l'uomo nel suo isolamento egoistico, nelle sue passioni, nel suo soggiacere alle forze del male, temi soliti al teatro bettiano e che ne avevano sempre formato il fondamentale pessimismo. Qui invece l'uomo è considerato nei suoi rapporti con gli altri uomini, nelle responsabilità dell'individuo di fronte alla collettività, nei problemi più delicati e profondi della condizione umana di tutti i tempi, con un deciso seppure poco definito accenno al dramma dell'umanità contemporanea, divisa in due mondi l'un contro l'altro armati di armi non soltanto ideologiche, ma anche materiali e distruttive. E in siffatto allargarsi del mondo morale di Betti dai problemi dell'individuo a quelli dell'umanità, si può cogliere una parola nuova che consiste nel riconoscimento che c'è errore da una parte e dall'altra, e un confuso messaggio d'amore e d'affratellamento umano.
Che poi il mondo morale di Betti sia mutato nei suoi punti di partenza, ci sembra che nulla ne L'Aiuola Bruciata autorizzi a pensarlo. In questo dramma, come nei precedenti, tutti sono cattivi, chiusi nel loro egoismo, espressioni di un'umanità malata ed infetta che perfino ai ragazzi ispira il rifiuto di vivere, ad eccezione di Rosa che è una figura di maniera la quale non esce dal simbolo, ed esprime il mondo della trascendenza che l'autore si limita ad invocare, lasciandolo fuori da quel bisogno di «rendersi conto», di «dare spiegazioni», di «parlare con chiarezza» che a un certo punto prende a tormentare tutti i personaggi del dramma. Che infine l'Istituto del dramma popolare, il quale si propone di far conoscere il teatro di ispirazione cristiana, abbia creduto di vedere ne L'Aiuola Bruciata un «Betti giunto a pronunciare un credo approdato alla Fede», è affar suo. A noi questo non sembra; la sola parte veramente sentita e artisticamente espressa del lavoro bettiano ci è parsa quella degli affetti umani dei personaggi, del tormentarsi dei due coniugi per la morte del figlio, delle poetiche rievocazioni paterne e materne; e soprattutto l'inno alla vita che scioglie Nicola, il quale afferma che « il vivere è tutto » negando implicitamente una sopravvivenza ultraterrena. Però a noi interessa molto che l'Istituto abbia offerto al lavoro postumo di Betti l'occasione di essere rappresentato in modo degno. Quanto al resto, alle finalità cristiane che l'Istituto si riprometteva dalla rappresentazione, possiamo dire soltanto che chi si contenta gode.
E veramente degna della rigorosa eticità e liricità del dramma bettiano è stata l'interpretazione che il Piccolo Teatro di Roma, sotto la guida di Orazio Costa, ha dato de L'Aiuola Bruciata nella cornice austera della chiesa di San Francesco. A Orazio Costa va il merito di aver impresso alla recitazione un movimento largo, severo, in cui il denso contenuto del dramma è risultato ricco di risuonanze Ulteriori. Camillo Pilotto, nella parte di Giovanni, ci è apparso in una delle sue interpretazioni migliori, commosso e pacato, equilibrato negli effetti dei molti capovolgimenti della situazione. Evi Maltagliati, Luisa, è stata donna e madre nell'intimo, ha espresso la sua angoscia del cuore. La raziocinante freddezza di Tomaso ha trovato in Roldano Lupi una resa di una plastica evidenza. Buon Nicola Sandro Ruffini e trepida Rosa Stella Aliquò, il cui raccolto calore è riuscito a creare un alone umano intorno a una figura intimamente artificiosa. Il pubblico foltissimo, accorso a San Miniato da tutte le parti della Toscana, ha applaudito lungamente lo spettacolo, che era stato presentato da Silvio D'Amico, con ben misurate parole.
Arnaldo Fratelli Paese Sera, Roma, 29 Settembre 1953
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