Ordet: la parola opera il miracolo in Piazza Duomo
Un "Teatro dello spirito" come verifica "di quali siano i segni dei tempi che possono profetizzare una nuova stagione del cristianesimo" che, nel rincorrersi incessante di ideologie e stilemi artistici, giunge immutato al quaranta-seiesimo traguardo, è già, per se stesso un miracolo. "Impresa che merita anzitutto rispetto, se non ammirazione" chiosa un critico. Per la fedeltà ad una linea che attraversa il teatro di ogni tempo e, soprattutto, per la coerente ricerca "della sede di Dio e dei valori evangelici che è dato riscontrare nel cuore dell'uomo/... da qualunque parte e cultura e civiltà essi vengano". Una ricerca a tutto campo che ha visto alternarsi, sulla scena di S. Miniato, Eliot e Strindberg, Caudel e Silone, Papa Wojtyla e Thomas Mann, con registi che vanno da Costa a Sthreler, da Squarzina a Zanussi. Porse non è inutile ricordarlo ai nostri inguaribili "laudatores temporis acti".
Ordet - la Parola - che l'Istituto del Dramma Popolare ha mandato in scena per la XLVI Festa del Teatro sulla stupenda piazza del Duomo di San Miniato, ci presenta lo spaccato inquieto e litigioso di una piccola comunità luterana della periferia danese. Una finestra aperta, sul desolato - e non solo geograficamente - paesaggio dello Yutland che il regista ha trapiantato in un più comprensibile clima mediterraneo conservandone però tutta la rudezza e la corposità dei personaggi.
L'integrità ed emblematica vicenda, lungi dal localizzarsi, si allarga su un più vasto orizzonte e finisce per coinvolgere lo spettatore inducendolo a misurarsi sul suo modo di concepire e di vivere la propria fede religiosa.
Il salto di qualità è dovuto all'irrompere - idealmente - sulla scena dell'autore, il pastore luterano Kaj Munk, personalità di eccezione, temperamento vulcanico, che in Ordet - scritto a 27 anni in appena una settimana - prolunga sulla scena le sue concezioni teologiche e il suo ardore missionario, senza curarsi di formalismi e linguaggi teatrali convinto di parlare più ad un gruppo di cristiani e che ad una platea.
Dietro la facies scenica i protagonisti sono ben altri, come ben più alta è la posta in gioco. E lo spettatore confusamente lo avverte.
Da una parte Frederik Grundtivig, vescovo luterano, intelligenza poliedrica cui si deve, il risveglio religioso e culturale della Danimarca nella seconda metà dell'800. La sua folgorante idea che la base del cristianesimo fosse la comunità dei fedeli e non la Bibbia, lo portò ad elaborare il principio "prima l'uomo e poi il cristiano" ed a trasformare in annuncio pasquale e in gioiosa solidarietà il teatro cristianesimo penitenziale di tradizione luterana. Grundtivighiano è Mikkel, il sanguigno e imprevedibile padrone della fattoria Borgen. Grundtvighiano è pure il "credo" di speranza di Munk i cui sermoni - molto belli - parlano spesso delle resurrezioni operate da Cristo, con inconcussa fede nel miracolo e profonda partecipazione al dolore che l'aveva preceduto e meritato.
Di fronte, la visione rigorista della "Indre Mission" impersonata con dignitosa convinzione del sarto Peter. Un movimento di laici che nasce con l'ideale di "risvegliare dal sonno i peccatori" attraverso il rigorismo morale, la conversione interiore, la lettura assidua della Bibbia.
L'aspro contrasto fra lo straripante ed imprevedibile Mikkel e il sarto Peter, più contenuto nella sua coerenza ritualistica, finisce per coinvolgere e travolgere l'innocente idillio fra Anders, il timido figlio di Mikkel e Anna la candida figlia di Peter. Una tenue linea nella economia del dramma di cui il regista Scaccia recupera l'umanità, evidenziando la delicatezza dei sentimenti in antagonismo all'arida baruffa teologica.
La "fabula" che vede di fronte fondamentalisti e fideisti assurge ad una sua tragica attualità - per altro poco avvertita dai critici - per drammatici diaframmi che spaccano il cuore delle grandi religioni, dall'Islam ai Protestanti, dagli Ebrei, a cospicue frange del mondo cattolico.
Al centro di Ordet - e del dramma personale di Munk - pesa la domanda: E' possibile oggi il miracolo? che poi si risolve in un interrogativo esistenziale: Perché la fede della Chiesa istituzionale non produce più miracoli?
La risposta è affidata a Johannes, il secondogenito di Mikkel, già brillante studente di teologia, che ha perso la ragione per aver assistito alla tragica fine della fidanzata travolta da un'automobile. Con le sue allucinanti farneticazioni - giunge a credersi Cristo - Johannes è un continuo ed esasperante pungolo per la coscienza dei suoi interlocutori siano essi la Chiesa di Stato - il Pastore Bandbul - i vari "credi" dei fondamentalisti e dei pietisti, il meterialismo scettico dei dottore.
E quando, in un finale rapido e altamente drammatico, il giovane riacquista la ragione davanti al cadavere della cognata Inger, la dolce nuora di Mikkel, morta di parto, la fede totale, evangelica del giovane profeta, unita all'innocenza della nipotina Mauren, compie il miracolo e resuscita Inger, bruciando - nella tensione - scetticismi, pigrizie, litigiosità.
Non senza aver gridato in faccia agli allibiti dolenti che si preparavano ai funerali - ma il grido è di Munk - che "non era tornato all'orrore dei Savi".
Sul dramma-trattato di Munk, il regista e protagonista Scaccia è intervenuto radicalmente con intelligenza e buon gusto, con accorti dosaggi, con sottolineature, con opportune sintesi. Il risultato si è tradotto in un lavoro spigliato, in un dialogo gradevole e nella capacità di suggerire sommessamente spunti di riflessione allo spettatore che abbia un po' di sensibilità per "la parabola che si incarna".
Funzionale la scena di più ambienti di Mario Padovan che ha permesso un susseguirsi rapido e pulito delle varie scene contribuendo ad una migliore comprensione. Un felice gioco di luci ha contribuito a superare i momenti teatralmente critici - il parto, la resurrezione - senza scadere nel banale. Ottimo il cast degli attori. Da Scaccia protagonista dalle mille risorse che non disdegna di alleggerire la tensione con qualche spruzzatina di sommesso umorismo, a Consuelo Ferrara, una dolce e impegnata Inger, a David Gannarello assorto e intenso "profeta" nella parte di Johannes, a Maggiorino Porta un riservato e dignitoso Peter, a tutti gli altri, fino alla Giada Veracini una deliziosa Maren. Intonate alla vicenda le musiche di Federico Amendola, peraltro ottimamente eseguite dal coro "Mons. Balducci". Successo di critica e di pubblico. Numerosi applausi a scena aperta; cinque minuti in finale.
VASCO SIMONCINI, La Domenica 26 luglio 1992
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