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La recensione di Gianfranco Capitta
 

Moro, Popielunko e Giobbe, autori Wojtyla e Zanussi
La presenza del papa Giovanni Paolo secondo come autore del testo e quella di Krzysztof Zanussi come supervisore alla regia hanno fatto di Giobbe, uno degli spettacoli di maggiore curiosità dell'estate teatrale. Per trovarvi però solo il modesto valore letterario del pontefice e un discutibile intervento del regista polacco che mischia suoni luci preghiere e colpi bassi alla ricerca di suggestioni cristiane « forti ».
La festa del teatro della cittadina toscana giunge quest'anno alla 39a edizione: nata dalla Resistenza (per ricordare un eccidio perpetrato dai nazisti dentro la chiesa) e specializzatasi poi nella messa in scena di testi che affrontino la spiritualità ma anche la contemporanea coscienza civile, come tiene a ricordare il direttore artistico della manifestazione, Marco Bongioanni.
Certo quest'anno la scelta di un testo di Wojtyla (scritto alla vigilia della seconda guerra mondiale, quando il papa aveva 19 anni) segna in maniera molto forte la rappresentazione. Il tema è appunto quello del titolo, la figura biblica di Giobbe, e il buon animo con cui accettò, perché mandata da Dio, ogni possibile sciagura che spazzava via man mano la sua florida situazione economico-familiare. Quella che volgarizzata è insomma nota come « la pazienza » di Giobbe.
La prima virtù del testo appare quindi proprio la coerenza con cui già allora il futuro papa apprezzava valori che oggi, come amministratore apostolico, sembra vigorosamente sostenere in seno alle possibili opzioni di fede.
Dall'altra parte c'è proprio la assoluta, quasi esibita « semplicità » con cui il tema viene affrontato (almeno nella traduzione, che è di Margherita Guidacci e di Aleksandra Kurczab). Parole e valori elementari e didascalici, accostamenti trasparenti del personaggio con il Cristo che si avvia al Calvario, frasi brevi, intrecciate a massime ripetute come nella liturgia. Nelle intenzioni (rivelate dalla presentazione di sala) la forma adottata dovrebbe essere quella del kammerspiel, non destinato quindi alla interpretazione drammatica quanto alla lettura oratoriale.
Il progetto di regia però è stato affidato a Zanussi, connazionale illustre del papa (autore qualche anno fa della sua biografia per lo schermo, Da un paese lontano) nonché regista di film asciutti e molto impegnati sulla storia attuale del proprio paese. Sobrio fino a essere essenziale in patria, alle prese con questa rivisatazione biblica, Zanussi ha invece preferito la misura del grande spettacolo, il kolossal non esportabile che sfruttando la splendida piazza oblunga di San Miniato, ne amplificasse la teatralità con suggestioni fortemente cinematografiche, preservando ovviamente l'impatto di massa.
A questo servono pure le canzoncine parecchio easy e anni 60 di Tony Cucchiara che aprono e chiudono la serata e illustranti la storia di Giobbe. Grandi ricchezze, numerosa prole e infiniti armenti, che Ugo Pagliai (realizzazione del sogno di frate Antonino) assomma con compunzione pari solo alla rassegnazione per la loro rovina. Fiorella Buffa è la moglie, distinta fino ad apparire borghese col suo collier d'oro, che dopo le disgrazie copre solo con una sciarpa, mentre a Paola Gassman (la più convincente fra gli interpreti) toccano le parole ieratiche del profeta Eliu.
Questa la cosmogonia della fede rassegnata e disposta ad accettare tutto in nome di Dio, mentre lo scenario trascolora dall'iniziale presepio animato napoletano a immagini sempre più sconvolgenti. Dalla scalinata alluvionata (attraverso autobotte ma con riferimento esplicito alla Val di Fiemme) a fuoco, fiamme, botti e fumo che sotto le gelatine verdazzurre dei riflettori da set sottolineano il tono asseverativo delle parole. Fino a un fulmineo passaggio muto dove nel volger di pochi secondi ragazzacci su motorette enduro assaltano e prendono prigioniero un uomo in camicia bianca. Grandi botte e interrogatori, poi la fatale R4 rossa nel cui cofano sarà trucidato.
Un pugno nello stomaco dello spettatore (proprio nei giorni in cui tanto si parla di « oscenità » in scena) che non ha tempo di riprendersi perché la sagoma di un prete appare ad essere martoriata da altri analoghi giovinastri. Che per altro hanno il look metropolitano e rasato dei punk, poco pertinenti sia al racconto dei brigatisti che all'abbigliamento dell'esercito polacco.
Ma l'importante, per Zanussi e per la Kurczab, che ha curato la realizzazione del progetto di regia, sembra soprattuto quello di scolpire nelle coscienze. La pazienza di Giobbe innanzitutto, rafforzata dalla sagoma di Cristo che da un lato si avvia con la sua croce sulle spalle. E quella dei credenti, cui viene proposto un modello così ferreo da essere difficilmente posto in discussione. E per gli spettatori che in quella sede possono fare interessanti comparazioni e istruttivi approfondimenti sulla forza della realtà e quella della finzione scenica.
Gianfranco Capitta Il Manifesto, 27 Luglio 1985




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