«Ho sofferto l'atroce dolore di non essere colui che volevo essere»
«Eterno! Non lascio la tua mano, la tua mano forte, finché non mi avrai benedetto! Benedicimi, Signore! Benedici l'umanità che soffre poiché Tu le hai dato la vita! Benedici per primo me, che ho sofferto di più, che ho sofferto l'atroce dolore di non essere colui che volevo essere!».
Con queste parole, che il protagonista, il «Cacciatore», vorrebbe vedere incise su un «manto terso e chiaro» di neve, si conclude La grande strada maestra, l'ultimo dramma di Johan August Strindberg, scritto e rappresentato per la prima volta a Stoccolma nel 1909.
In quella invocazione c'è il senso di tutto il travaglio interiore che caratterizzò la vita del maggior drammaturgo svedese. «E' difficile — scrisse Silvio D'Amico — pensare a tragedie spirituali più tempestose di quelle che si combatterono nell'anima di Strindberg». E lo si capisce bene se solo si confronta il finale della Grande strada maestra con quello che vent'anni prima l'autore scriveva in una lettera inviata il 4 dicembre 1888 al critico e storico danese Georg Brandes: «Per me il cristianesimo è un ritorno al passato; è la religione dei deboli, dei mediocri, dei castrati, delle donne, dei bambini e dei selvaggi».
Erano gli anni dell'influenza di Nietzsche. Dopo lo avrebbe rinnegato, ma allora il filosofo di Così parlò Zarathustra rappresentava per Strindberg «lo spirito moderno che osa proclamare il diritto del forte e dell'intelligente di fronte ai cretini e ai mediocri».
Anche sul piano sentimentale e professionale lo scrittore svedese (nato a Stoccolma nel 1849) mostrò tutta la sua irrequietezza, sposandosi e divorziando per ben tre volte e passando per ogni genere di mestieri e di interessi. Per alcune volte tentò anche il suicidio.
Alla problematica spirituale Strindberg si accostò nell'ultimo decennio della sua vita (morì a Stoccolma nel 1912 di cancro allo stomaco) attraverso l'ascetismo buddista e il sincretismo religioso di cui sono testimonianza alcuni capolavori drammaturgici come Verso Damasco, Danza di morte e Sogno. Strindberg, come ha scritto Vico Faggi, non giunse mai ad una «fede ortodossa e codificata», ma cercò «il trascendente e, nel trascendente, la liberazione dai suoi sensi di colpa e dalle sue sofferenze».
Il drammaturgo svedese, con la sua controversa ma anche coinvolgente problematica religiosa, è approdato, per la prima volta, sul palcoscenico all'aperto nella storica piazza del Duomo di San Miniato in provincia di Pisa per la quarantaquattresima «Festa del Teatro» organizzata dall'Istituto del dramma popolare. Ad andare in scena, in prima nazionale venerdì scorso, è stata proprio La grande strada maestra.
Così il nome di Strindberg sì è aggiunto a quelli di altri grandi autori come Eliot, Bernanos, Greene, Claudel, Fabbri e tanti altri i cui principali testi sono già stati rappresentati nella cittadina toscana dal 1947 ad ora. Di recente, nel 1985, San Miniato ha ospitato anche un testo giovanile di Giovanni Paolo II: Giobbe.
Unica nel suo genere, la «Festa del Teatro» propone ogni estate un testo che, secondo quanto prescrive lo statuto, non sia mai stato rappresentato in Italia e tratti argomenti legati alla spiritualità dell'uomo.
«Noi precisammo fin dal nostro nascere — ha scritto don Giancarlo Ruggini, uno dei fondatori dell'Istituto del dramma popolare — che non ci interessava un teatro puramente devozionale e edificante, che volevamo un teatro impegnato sui problemi e sulle inquietudini spirituali del nostro tempo». «Ci interessava insomma — concludeva don Rugginì — verificare quanto nella realtà c'è ancora di cristiano, quale sia la sete di Dio e dei valori evangelici che ancora è dato rintracciare nel cuore dell'uomo e nelle sue comunità, quali siano i segni dei tempi, da qualunque parte e cultura e civiltà essi vengano, che possono profetizzare una nuova stagione del cristianesimo».
Fedele a questi propositi, la «Festa del Teatro», pur nella difficoltà di reperire ogni anno un testo con requisiti così precisi con conseguenti e inevitabili alti e bassi, ha saputo tener desta l'attenzione su un teatro dello spirito in una stagione sempre più dominata dalla cultura dell'effimero.
Onore al merito, dunque, per quanto è stato fatto nel passato e anche per il testo scovato quest'anno da don Luciano Marrucci, tornato alla direzione artistica dell'Istituto del dramma popolate (lo era già slato dal 75 al 79) dopo, la prematura scomparsa di don Marco Bongioanni.
Don Marrucci ha dichiarato di essere rimasto affascinato dal contenuto e soprattutto dall'alto valore poetico de La grande strada maestra. « Raramente — ha detto il sacerdote di San Miniato presentando il lavoro nel corso della conferenza stampa che ogni anno precede l'anteprima per i giornalisti — c'è stato proposto un testo che corrispondesse di più a quella linea che l'Istituto del dramma popolare persegue (con esiti differenti, lo ammettiamo) da 44 anni».
«E' la storia dell'umanità — ha scritto Andrea Bisicchia — che aspira alla redenzione, dopo le barbarie, la degradazione e la follia; l'opera più disperata e nello stesso tempo più meditata, più ribelle e più pacata, più nera e più ricca di luci». «Qui — osserva Franco Perrelli — Strindberg, il poeta del nichilismo, diventa il cantore dell'assoluto».
Di carattere autobiografico, come del resto gran parte della produzione letteraria di Strindberg, La grande strada maestra propone un viaggio simile a quello di Dante e Virgilio nella Divina Commedia, e i riferimenti espliciti al capolavoro dantesco non mancano: all'inizio del testo l'Eremita ricorda al Cacciatore (il protagonista del dramma in cui si identifica lo stesso Strindberg) che «ha vissuto solo metà della sua vita», mentre l'epilogo si svolge in una «selva oscura», «un bosco avvolto nelle tenebre».
Diviso in sette «Stazioni», come una sorta dì Via Crucis, La grande strada maestra ci presenta un uomo alla ricerca dì se stesso e del senso della vita, o meglio ancora della propria anima E' il Cacciatore stesso a spiegarlo nel dialogo iniziale con l'Eremita: «Cosa cerchi qui?» domanda l'Eremita «Me stesso, o meglio la mia anima che ho perso laggiù», risponde li Cacciatore. «Quello che hai perso... là, come speri di ritrovarlo qua?», domanda ancora l'Eremita: «Hai ragione! Ma se tornassi là mi smarrirei completamente e non troverei più quello che cerco», afferma il protagonista. Ma l'Eremita, a questo punto, scuote dall'esitazione il Cacciatore e lo spinge a tornare «laggiù», a fare un cammino in mezzo agli uomini. Ad accompagnarlo sarà il Viandante, l'altro personaggio di spicco, una specie di Virgilio. Insieme iniziano un viaggio attorno e dentro l'uomo. Nelle varie «Stazioni» si imbattono in personaggi grotteschi simbolo dell'ipocrisia, della malvagità e della disperazione umana. Abbandonato anche dal compagno di viaggio, il Cacciatore incontra finalmente l'innocenza e il candore sotto le spoglie dì una bambina. E' la «luce della speranza», che gli consente di «penetrare nella notte» dell'ultima «Stazione» e di resistere al Tentatore.
«Certo, cala su di me, ti aspetto al varco!», recita il Cacciatore nel monologo finale, «Vieni con la disperazione, tentatore che cerchi di ingannarmi e vuoi che rinneghi il Generoso Donatore! Dall'aria purissima delle vette, sono sceso per camminare tra i figli dell'uomo e condividere la loro pena quotidiana. Non c'era una strada ampia e dritta, ma un sentiero scosceso segnato da cardi e da rovi...». Infine, nel ricordo della bambina, il Cacciatore conclude: «Dove sei fuggita, visione pura e incantevole, Terra dei sogni e dei desideri? Anche se forse eri soltanto un miraggio, voglio rivederti in cima alla vetta coperta dì neve, nell'aria pura e tagliente come il cristallo, dove attende l'eremita. Lassù aspetterò l'ora della mia liberazione! Mi regalerà un luogo dove affondare in pace sotto la gelida coltre della neve, e su quel manto terso e chiaro, inciderà queste parole...». Ed è qui che il Cacciatore invoca la benedizione per aver «sofferto l'atroce dolore» di non essere colui che voleva essere.
Da queste poche battute si può comprendere come La grande strada maestra sia un testo particolarmente pregnante e, grazie anche alla traduzione di Enrico Groppali, di alto valore lirico, ma al tempo stesso di difficile interpretazione per la scarsa teatralità. In questo senso, il lavoro del regista Mario Morini, chiamato a dirigere questa prima edizione italiana del dramma di Strindberg, è stato eccellente. Morini ha lavorato molto sugli attori, cercando così di sopperire alla carenza di azione. E gli attori hanno risposto in modo egregio, a partire da Massimo Foschi che dà voce e corpo ai tormenti del Cacciatore con una recitazione intensa e coinvolgente, soprattutto nei lunghi monologhi. Accanto a Foschi, ottima anche la prova dì Carlo Simoni, già protagonista a San Miniato del Capanno degli attrezzi di Graham Greene nell'edizione 1987 della «Festa del Teatro». Molto bravo anche Mico Cundari che, oltre all'Eremita, impersona la complessa figura del Giapponese. Completano il cast Milena Vukotic, impegnata in ben quattro ruoli, Stefano Gragnani e Giancarlo Condé che danno vita ai vari personaggi delle «miserie umane», Eliana Lupo, Gianluca Farnese, Antonio Cascio e la piccola Elettra Farnese. Varie chiamate alla ribalta alla fine dello spettacolo hanno salutato gli attori più volte applauditi anche a scena aperta. Repliche fino a giovedì 26.
ANDREA FAGIOLI, L'Osservatore Romano, 25 luglio 1990
|