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La recensione di Salvatore Quasimodo
 

La recensione

 

Il demoniaco alternato con l' angelico

 

Dopo La maschera e la grazia di Henri Ghéon, rappresentato con regia di Brissoni nel 1947 e Assassinio nella cattedrale di Eliot con regia di Strehler nel '48, l'Istituto del Dramma Popolare ha presentato il 27 agosto scorso, nella piazza del Duomo di San Miniato, Yo, el Rey di Bruno Cicognani. Il regista Mario Landi ha coordinato e diretto questa novità di autore italiano con equilibrata modulazione del ritmo.
L'opera, in tre parti e otto episodi, non è davvero una «sacra rappresentazione» moderna, benché il suo chiaro spirito religioso denunci una volontà di croce e di martirio. Alla storia, l'autore ha chiesto verità e giustizia per Filippo II, aspro e, comunque, sventurato re, che dalla dittatura spirituale dell'Inquisizione derivò lutti e crudeltà al suo popolo: una storia che già aveva dato sul finire del '500 un poetico tentativo di sistemazione della realtà ne Il principe don Carlos di Diego Jiménez de Enciso. Ma i «documenti» d'un'epoca come quella di Filippo, in cui l'assolutismo era obbedienza cristiana e il potere monarchico considerato di provenienza divina, potrebbero essere meno validi d'una leggenda popolare. Motivi polemici, questi, che non pesano su un'opera poetica. Yo, el Rey di Cicognani disegna un principe Don Carlos di incerta virilità, isterico e frequentatore di lupanari, sadico, masochista e ribelle all'autorità paterna, non ipocrita ma profondamente religioso, che porta nella mente, secondo il suo amico don Juan Estevez de Lobòn, «le stravaganze dell'ava Giovanna, e nel sangue, oltre le virtù, le ingordigie, le collere e la melanconia dell'avo, il grande Carlo». Quella «incerta virilità» di provenienza storica dovrebbe allontanare il sospetto dei possibili incontri amorosi tra l'Infante e la giovane regina Elisabetta di Valois, incontri ai quali un numero cospicuo di poeti ha dato un valore determinante nella tragedia della casa di Filippo II. I torbidi antireligiosi delle Fiandre, le repressioni sanguinose dell'eresia, i roghi, il barone di Montigny, don Giovanni d'Austria, il duca d'Alba, il cardinale d'Espinosa, grande Inquisitore, fanno da contrappunto tematico all'irriducibile dissidio fra don Carlos e Filippo, Don Carlos non ha bene appreso la scuola dei re; e il suo spirito liberale, l'amore per la giustizia, la sua malattia intermittente (il demoniaco alternato con l'angelico) sono la causa della sua perdita. Filippo ci appare soltanto come re e non padre, anche se come tale è prodigo di gelidi perdoni. La storia, che ristabilisce l'autorità regale e religiosa, porta veramente al di là dell'umano (e qui è esatto dire nel disumano) questa figura di antipadre, «giustiziere del suo sangue». L'episodio più fermo della tragedia è il quinto. Qui, dopo minuziose insistenze verbali per definire la natura di don Carlos attraverso personaggi e peccati puerili di sapore curialesco, si rivela davanti ai teologi del Monastero reale di San Gerolamo la profonda chiarezza morale dell'Infante. Egli non riceverà l'assoluzione perché non può, nella sua debolezza d'uomo allontanare dal cuore l'odio per il padre, mentre facile sarebbe, ipocritamente, promettere. Il don Carlos di Cicognani non viene assassinato per ordine del re, ma finisce suicida, nella prigione della sua stanza, per l'enorme consumo di cibi, di acqua gelata: suicida per crapula, assolto, dopo il pentimento, nell'ora della sua morte.
Canzoni gitane di Lope de Vega e un lamento di Diego Jiménez de Enciso, musicate con leggiadria dal maestro Frazzi e cantate esemplarmente da Alfredo Bianchirli, e cori e danze su gagliarde del '500, hanno colorato l'aria cupa della tragedia.
Gianni Santuccio, che per due volte quest'anno è entrato nelle vestì del re spagnolo, ci ha dato una delle sue più mature interpretazioni; e Antonio Pierfederici un don Carlos amletico. Edda Albertini è stata una regina Elisabetta ronsardiana, secondo lo spirito del testo. Ma gli altri attori (sensibile il Feliciani, applaudito a scena aperta), da Gualtiero Tumiati al Moretti, al Conti, al Battistella, al D'Angelo, al Bosic, al Fanfani, alla Simi — e bisognerebbe citarli tutti — meritano un aperto consenso.

 

SALVATORE QUASIMODO Tempo, Milano, 3-10 Settembre 1949




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