Il fascino del perdente
Il prete in libreria e in palcoscenico: non pare che sia un escluso se, ad esempio, questo di Graham Greene entra nei Classici moderni di Mondadori portando a 17 le edizioni del famoso romanzo: Il potere e la gloria che, nell'elaborazione drammaturgica, conosce ora un nuovo allestimento, dopo quello curato da Luigi Squarzina con Aroldo Tieri finissimo interprete, nel 1952; già che ci sono, ricordo i preti di Fabbri e di Willa Cather e di De Montherlant e di Bernanos e di Eliot (il suo arcivescovo è esposto al potere tentatore e perviene alla gloria del martirio): figure di sofferenza o di dubbio, sempre vive e prossime, pensate con arte e passione, tutte agoniche. E accolte benissimo (si veda il recente enorme succeso dei Dialoghi delle Carmelitane, un successo interrotto dall'indifferenza o dal malvolere del Potere, dovunque annidato).
Insomma, c'è una terza dimensione che non è sopprimibile e c'è una figura che è segno di contraddizione necessario.
Contraddizione persino con sé stesso e la propria missione, com'è il caso di questo minimo prete messicano, braccato da una polizia rivoluzionaria ed atea (quella messicana dei primi decenni del secolo) il cui comportamento d'uomo è pieno di mende; è un prete che si è lasciato andare e che è posseduto dalla paura, ma è prete dalle radici e per sempre.
Un prete che va a tentoni, che si muove tra cadute e vuoti d'anima, ma che tuttavia resta: rimane col suo popolo pur tentato di fuggire e tracciando, ogni volta che può e come può, i segni di una liturgia abbreviata e abboracciata, ma tuttavia sacra.
Infine, di là dalle forme e dalle circostanze, egli sopporterà, pur tremando, un autentico martirio — la sua «gloria» — essendo stato tradito da un Giuda che lo autentica e però avendo compiuto un atto di carità totale, che è una grazia inconsapevolmente ricevuta. Dio ha seguitato a leggere nel suo cuore e nella sua debolezza.
Il prete di Graham Greene è l'estrema difficoltà dell'essere tale. Ha tutto il fascino dei perdenti e della perdizione. Non decade da sé stesso se non negli accidenti che ci fanno così esposti al peccato. È un santo a propria insaputa, è un testimone saldo oltre l'ignominia. Il suo antagonista — simbolo del potere — sarà un'altra figura, di segno contrario, ma di fede altrettanto inamovibile; il giovane, inesorabile idealista ufficiale di polizia, il puro e quindi terribile servitore di una concezione sociale pur integrabile con quella del prete: entrambi stanno dalla parte dei poveri; è la storia, barbara, ad averli contrapposti, l'uno armato e l'altro inerme.
Il romanzo — e, quindi, il dramma — dello scrittore inglese (apparve nel 1940) è di una attanagliante vigoria e problematicità. L'Istituto del Dramma Popolare (giunto al 45esimo anno di vita) ha fatto bene a riprenderlo, perchè le generazioni passano ed hanno poca memoria. Sembra, inoltre, che l'istituto voglia ripartire, cioè ripensare lo spirito come verità delle cose e test della cultura. Speriamo bene e speriamo che sia tanto fortunato (o avveduto) da trovare un testo d'oggi.
Ecco, dunque, la bella edizione curata da Giancarlo Sbragia, il quale ha impresso al dramma un bel movimento, ha voluto un recitare chiaro e spoglio e, per sé stesso, ha dato alla figura del prete una disadorna semplicità, una povertà umile, sfatta e tremebonda, una fragilità invocante pietà, un bisogno erratico d'amore; il tutto con assai pregnante comunicativa.
Accanto a lui, il figlio Mattia è riuscito un Ufficiale di notevole e sicura incisività. Ma poiché si comportano egregiamente anche Elio Veller e Camillo Milli, Giancarlo Cortesi e Margherita Baffico e Tino Michienzi e Toni Barpi e con loro numerosi compagni, ne scaturisce una proposta di encomiabile intensità, che le scene (riprese) di Giovanni Polidori magnificamente impaginano, mantenendo l'organicità dell'avvincente tessuto drammatico.
ODOARDO BERTANI, Avvenire, 26 luglio 1991
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