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La recensione di Paolo Lucchesini
 

Tutto il dolore del mondo
Una festa del teatro ritrovata, una grande festa, un avvenimento come non accadeva da anni. I nostri ricordi non vanno oltre il 1964, l'anno della Riunione di famiglia di Eliot, ma certo giovedì sera, all'anteprima di Giobbe di Karol Wojtyla, si è ricreata quell'atmosfera di fervida attesa, di entusiasmo,  di fiducia  in un  teatro  e nei  suoi alti valori, che da tempo si era dissolta, quasi che ogni appuntamento fosse diventato un dovere, se mai addirittura un tributo. L'Istituto del Dramma Popolare, a un solo passo dal quarantesimo compleanno, ha operato una scelta felice per più di un motivo:   un testo giovanile di Papa Giovanni Paolo II, traboccante di disperazione, di intima ribellione, tanta, ci è parsa l'adesione dei sentimenti dell'autore, ventenne nel 1939, che pone in essere una resistenza intellettuale alla sopraffazione e allo smembramento della sua Polonia, con quelli del patriarca Giobbe, spogliato dai suoi beni materiali e affettivi.
Ma anche un'attenzione a certe regole mondane del teatro che, pur senza scendere a squallidi compromessi — e non è certo il caso di San Miniato —, è fatto anche di nomi importanti in locandina.
Da una parte un testo dei giovane Wojtyla, dall'altra l'adesione all'iniziativa di Krzysztof Zanussi, in qualità di supervisore alla regia, infatti, sono stati gli elementi su cui è poggiato il progetto Giobbe, che sembra aver inaugurato una nuova fase storica dell'Istituto samminiatese. In un'unica soluzione si sono recuperati capacità d'intrapresa, attenzione dell'opinione pubblica, conforto del successo: San Miniato è tornato a essere per una settimana  d'estate l'ombelico del  mondo teatrale.
Detto questo, però, sono necessarie alcune considerazioni sulla confezione dello spettacolo, accolto entusiasticamente dal pubblico dell'anteprima, in rapporto al testo che Wojtyla compose negli anni di piombo della sua terra.
Abbiamo letto in anticipo il testo, ne abbiamo parlato, individuandone le peculiarità letterarie e sottacendone, in attesa dell'esito del palcoscenico, le reali difficoltà di rappresentazione. Il Giobbe del giovane Wojtyla è un esempio di teatro di parola, di poesia, un testo da recitare quasi oratoriamente, costruito come una sorta di ossessione del dolore, in cui l'iterazione delle frasi ha la forza dell'acqua ohe goccia paziente e impietosa e logora la pietra, la penetra. Né Wojtyla poteva esprimersi diversamente in un mondo di cui i nazisti avevano negato ogni mezzo tecnico d'espressione: non gli restava altro che il pensiero, quindi la parola per resistere, per sperare. Il linguaggio è il motore del Giobbe, non tanto il successo degli eventi: il dolore divampa nell'animo del patriarca quando s'interroga e si consuma sul perché delle sciagure che si abbattono su di lui, non tanto per le conseguenze nefaste delle calamità, sopportate con lucida fede.
La struttura dramaturgica pretendeva quindi considerazione, rispetto, anche ritenendo tagli e aggiustamenti. E' la legge del teatro. Il fatto è, invece, che Aleksandra Kurczab, più come adattatrice che come regista, ha operato con mano pesante sul testo, sforbiciando senza quartiere, impoverendolo di ciò di cui era ricco, della poesia; quasi riconducendolo alla dimensione e alla consistenza di un libretto d'opera. Salvo pochi brani, rimasti intatti, il Giobbe è diventato una sceneggiatura, sulla quale Zanussi ha costruito un grande sensazionale  spettacolo.
Nel programma di sala, Marco Bongioanni, direttore artistico dell'istituto, si chiede: « Non è, allora, il caso di consegnare questo testo a un regista esperto per verificarne l'eventuale capacità espressiva e scenica? Non è il caso di chiedere a questo regista di non disattendere né eludere la " originalità " della proposta, ma di capirla, penetrarla, farla propria ed esprimere adeguatamente la " parola "? ». La risposta della regia purtroppo, è stata negativa. Il dramma di Giobbe nella magnifica piazza del Seminarlo, ha perduto gran parte della sua spiritualità, esibito, esteriorizzato in funzione di uno spettacolo affascinante, che avrebbe potuto essere tale anche manifestando una maggior fiducia nel testo.
Zanussi ha usufruito lo spazio della piazza, un cinemascope convesso, per sviluppare con tecniche cinematografiche effetti di presa immediata, alcuni coerenti con il testo (vedi la sciagura annunciata da raffiche di vento che sospingono fuori da un vicolo polvere, foglie, uomini, e un'improvvisa cascata d'acqua a precipizio da una scalinata), altri di documentaria evidenza, riferiti a fatti di oggi (l'assassinio di Moro con tanto di R4 rossa, ma targata Pisa, e quello di padre Popielusko) con notevole spiegamento di mezzi (moto, auto, fragori, principi d'incendio) e sapiente uso di luci del fido Slavonir Idziak. In questo contesto spettacolare Ugo Pagliai, che sostiene il ruolo del patriarca, e Paola Gassman, il profetico Eliu, hanno dato prova di professionalità e di impegno, ricavando l'impossibile da quanto del testo è stato loro consegnato; la poesia deve essere lasciata fluire, non somministrata per dosi. Modesto il contributo degli altri interpreti. Meglio il gruppo delle comparse ben organizzate nelle azioni corali. Tony Cucchiara ha fornito un'adeguata colonna sonora, eseguendo in apertura e al finale un'accorata ballata su Giobbe.
Il successo è stato completo.
Paolo Lucchesini La Nazione, Firenze, 27 Luglio 1985




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