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La recensione di Roberto De Monticelli
 

Cavaliere - schiavo, santo e sognatore
Non si può certo dire che la dirigenza dell'Istituto del Dramma Popolare non si impegni animosamente, cercando di allargare la sfera dell'attività oltre l'evento annuale dello spettacolo. Il fatto è che qualcosa è cambiato e un ciclo, forse, si è definitivamente chiuso; perché qualcosa è cambiato anche, in peggio, nel teatro italiano.
Queste considerazioni non riguardano certo il testo rappresentato quest'anno —, Ramon il mercedario — il dramma ohe Luigi Santucci ha tratto per l'occasione da un suo racconto, pubblicato in un libro appena apparso, nelle edizioni Mondadori, II bambino della strega. Il ritorno di questo scrittore così sottile, inquieto, dotato d'uno stile fermo e immaginoso, al teatro, era proprio uno dei motivi d'interesse della serata; ne abbiamo così pochi di scrittori autentici che s'accorgono del teatro e di tanto in tanto vi si impegnino. Per questo eccoci qui, a cercare di rompere quella fascia di indifferenza originata dalla convinzione che tanto gli autori italiani non esistono; e che comunque non interessano nessuno.
Ramon il mercedario è una parabola cristiana; è la storia, liberamente interpretata e rivissuta, di Raimondo Nonnato (così chiamato perché venne estratto dal corpo della madre, morta prima che il giusto tempo della gestazione si compisse), uno tra i primi « mercedari », cioè appartenenti all'ordine religioso-cavalieresco della Mercede, fondato all'inizio del secolo XIII a Barcellona da San Pietro Nolasco. L'ordine sorse ponendosi come scopo prevalente la liberazione e il riscatto degli schiavi cristiani dai Mori. E infatti Raimondo Nonnato fu missionario, patì la schiavitù (che accettò più d'una volta volontariamente), ebbe una vita d'avventure e supplizi. Liberato, venne creato cardinale da Gregorio IX.
Notizie che si danno per l'individuazione del personaggio. Ma Santucci si guarda bene dal tea tralizzare, in modo ortodosso ed edificante, una vita di santo. Egli narra la storia d'una ricerca di libertà, descrive un cammino di conoscenza ohe passa attraverso le più grevi vicende terrestri, il dolore ma anche una misteriosa felicità, la sublimazione dell'amore, le spine dell'erotismo, l'ossessione di quel grembo materno che era già tomba.
Il suo Ramon, insomma, sempre in viaggio tra la Spagna e l'Africa, condannato al remo della galea, schiavo volontario, prima per riscattare la donna che ama (e che gli verrà negata dalla sorte), poi per vocazione di martirio, per espiare la « colpa » della sua nascita, così forte, atletico, traboccante di vitalità e d'immaginazione, è un avvennero dell'anima, una specie di giullare o saltimbanco di Dio. E' uno che per tutta la vita, trascorsa quasi sempre in catene, ha servito solo i propri sogni, suoi veri padroni. Non per nulla Santucci gli pone in bocca, alla fine, parole che potrebbbero far pensare alla vicenda terrena di un altro poeta ramingo per mari di guerra e per visioni, e spesso carcerato, Cervantes.
Certo, il racconto da cui il testo dialogato deriva, nella stringatezza densa delle sue trenta pagine, è una metafora più compatta e misteriosa, splende come quelle forme sottomarine che lo schiavo al remo immagina oltre il legno della carena, nel solco liquido che la sua fatica scava. Ma anche il dramma ha una sua grazia, miniaturizzazione com'è, a brevi quadri, a fondali mutevoli, della tecnica drammaturgica claudeliana, che a sua volta era una mimesi della grande drammaturgia spagnola del Seicento.
Roberto De Monticellli Corriere della Sera, Milano, 19 Luglio 1981




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