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Sipario - La recensione di Mario Mattia Giorgetti
 

Francesco, il ribelle
L'Istituto del Dramma di San Miniato conta già cinquantadue anni di attività. Una vita. In quest'arco di tempo ha consegnato alla storia del teatro italiano tanti eventi di grande importanza sia per i registi che vi hanno preso parte (Brissoni, Strehler, Orazio Costa, Enriquez...), sia per gli attori, sia per gli autori: Thomas S. Eliot, Copeau, Bernanos, Betti, Fabbri, Claudel, Mann, Luzi...
Questa Istituzione, insomma, ha una sua precisa fisionomia d'importanza nazionale perché ha operato ed opera per un teatro diverso, popolare, dello spirito e della riflessione. Ha istituito questa "Festa del Teatro", è stata sempre fedele alla sua linea artistica e di contenuti, ha creato un appuntamento atteso e preciso nel panorama delle manifestazioni estive italiane. Eppure, questo Istituto i cui validi contributi artistici e produttivi, sempre riconosciuti, anche se in misura minima, dall'ex Ministero del Turismo e Spettacolo (adesso Dipartimento), adesso è stato depennato, come se niente fosse, dalla Commissione Prosa nominata dall'attuale ministro Walter Veltroni, andando così ad aggiungersi a quella lunga fila di organismi di produzione "potati" dai luminari della Commissione. Peccato.
Ci auguriamo un ripensamento della Commissione, e che si orienti verso un altro principio: investire in chi produce arte e non falcidiare solo per contenere la borsa a favore esclusivo di "altri" più amati soggetti.
Scegliere di mettere in scena la figura di Francesco d'Assisi, comporta molti rischi, dato che questo personaggio è stato rivissuto, ricreato attraverso ogni genere di arte: dal cinema al musical, dalla prosa alla televisione. Cosa poteva aggiungere questa nuova operazione a queste molteplici investigazioni? Dall'operazione drammaturgica di Zanussi-Ferrero, che si articola tra momenti narrativi e quadri di teatro, emerge a tutto tondo la contemporaneità dei comportamenti di Francesco che si muove come un giovane contestatore di oggi, paragonabile, come indica il regista, a un sessanttottino. Oltre alla contemporaneità dei comportamenti, sottolinea anche l'aspetto dialettico, politico, determinato, del volere di Francesco. Questo giovane, cresciuto in ambito borghese dove il credo più sentito è la mercificazione della "roba", scopre quanta schiavitù comporti vivere per l'accrescimento delle proprie ricchezze materiali. Scopre nel Vangelo, facendo appello ad un'analisi approfondita sulla parola, sul contenuto del Sacro Testo, la vera guida al vivere: la povertà come segno di libertà; la povertà come forza per ritrovare il proprio io, la propria natura, per dare un senso al nostro passaggio provvisorio su questa terra. Il rifiuto della proprietà non è solo una rinuncia al materialismo ma anche un linea politica, filosofìca: quella di distribuire i beni a chi ne ha bisogno, migliorare la vita ai bisognosi, vivere nella dimensione del dare e non del prendere, essere forti perché si può vivere nell'essenzialità dei bisogni. Vivere in rapporto con la natura, fraternamente legato a tutti gli elementi, affermando così il concetto di universalità. Sono questi principi che appassionavano i giovani di allora, e che appassionano i giovani di oggi, che cercano nel trascendente il punto di sostegno per agire, creare, vivere.
La scelta di questa operazione sta anche in questo, e bene hanno fatto i responsabili dell'Istituto a raccogliere il progetto di Giulio Paternieri cui va il merito di una lunga collaborazione sia di coordinatore, organizzatore e produttore di tanti eventi teatrali a San Miniato. E bene hanno fatto Zanussi e Ferrero a scegliere la formula del teatro narrato, senza confini di tempo, di epoche, costruendo così una favola allegorica dell'uomo per l'uomo. Strutturata in stazioni, l'opera, fa uso di linguaggi incrociati tra passato presente e futuro, tra riferimenti storici e citazioni di oggi, immagini che vivono in uno spazio scenico emblematico, senza tempo. Costumi, oggetti, lingua alta e lingua bassa s'intersecano dando luogo ad una teatralità metafisica, avvincente.

LO SPAZIO
Il regista ha chiesto allo scenografo Nicasio Anzelmo di collocare al centro della bellissima piazza del Duomo una piattaforma con cinque scivoli, il pubblico è stato distribuito su tre aree: al centro e ai due lati. La piattaforma, fornita di due montanti e di una americana per i riflettori, era popolata di pochi elementi: un tavolo con delle stoffe colorate, un baldacchino a mo' di altare e, di volta in volta, sono apparsi altri elementi: una gabbia per descrivere la prigione di Francesco, che poi, opportunamente ricoperta di un telo diventava il monte Verna su cui si ritira il Poverello di Assisi. Perché il regista ha creato uno spazio così spoglio? Semplicemente per sottrarre la messa in scena da riferimenti realistici, per descrivere ciò che di sequenza in sequenza il testo suggeriva: una messainscena con segni essenziali, evocativi. Inoltre, questa piattaforma sui cui il regista ha fatto dipanare tutto lo spettacolo è stata integrata con l'ambiente circostante: il Duomo, il Palazzo Vescovile, sfruttando ingressi, finestre, rosoni come elementi indispensabili alla drammaturgia, sfruttando così più spazi narrativi. Un ottimo lavoro di integrazione degli spazi scenografici con ciò che è la realtà dell'ambiente. Tutto ciò ha conferito alla manifestazione un suo preciso carattere di esclusività e irripetibilità dell'evento.
Se lo scenografo ha assecondato in maniera perfetta alle esigenze registice, anche la costumista Laura Borgarucci ha risposto efficacemente al progetto di Zanussi: costumi contaminati da forme medievali accompagnati da jeans, scarpette da ginnastica. Solo il padre di Francesco, Bernardone, è stato calato nel periodo storico da cui si diparte la vicenda di Francesco come punto d'inizio che si congiunge col nostro tempo; un narratore, stile signorotto campagna, inforcando la sua mountain bike, ha condotto con tono pacato, forse un po' troppo pacato, i momenti teatrali, dialogando col pubblico, con i personaggi, con se stesso: un personaggio simbolo, appunto "colui che vide" attraverso tutti i tempi l'operato di Francesco.
L'opera, strutturata in maniera complessa perché oscilla tra narrazione e drammaturgia, sviluppando un linguaggio che passa da una lingua evocata, alta, a un parlato quotidiano, non era di facile realizzazione. Anzi. Zanussi, straniandosi da essa, ha fatto sì che dominasse la parte dialettica anziché quella dominata dai sentimenti che avviluppano i personaggi. Un'operazione che si avvicina a una sorta di teatro brechtiano, ma il regista non si è fatto prendere, per fortuna, dall'estetica del teatro epico, lasciando agli attori ampia libertà a scoprire il proprio talento, le proprie capacità vitali. Non ha congelato l'opera in uno schema rigido. Può sembrare a volte che non ci sia una linea estetica unitaria; ma forse sta qui il fascino della rappresentazione perché non si sa da che parte prenderla tanto risulta fresca e vivace.
L'Uomo che vide è stato tratto dal romanzo Francoise d'Assise, pubblicato nel 1960, il cui autore è quel Joseph Delteil - vedetta letteraria dell'epoca -, autore anche di quella Giovanna d'Arco da cui il grande regista Dreyer trasse il suo più celebre film. Secondo l'autore il libro voleva essere un valido contributo sia per gli agnostici, i liberi pensatori e sia per gli atei. Su questa linea si sono mossi anche gli adattatori teatrali che sono Piero Ferrero, drammaturgo al teatro stabile di Torino, e il regista polacco Krzysztof Zanussi.
Gli autori hanno voluto descrivere un Francesco d'Assisi dei nostri giorni anche se la sua storia parte dal duecento si conclude però alle soglie del Duemila. Hanno voluto portare in scena un Francesco animato da fiamma radicale, libertario, vigoroso e ribelle, affidando il racconto ad un cronista senza tempo che ci traghetta da una scansione all'altra fino ai giorni nostri.
Sulle note musicali composte da Andrea Nicoli, anche attore, che ha accostato spiritual, canti gregoriani, mottetti e ritmi "reggae", senza dimenticare le melodie dei trovatori, lo spettacolo si snoda velocemente nell'arco di novanta minuti, su questa scenografia, come si è detto, "povera" ma suggestiva grazie anche alle luci che hanno cercato di renderci l'immediatezza degli stati d'animo che via via si determinavano sulla scena.

GLI ATTORI
La compagnia ha comunque consegnato allo spettatore tutta la spontaneità necessaria al disegno registico. L'attore Carlo Simoni è stato un pacato narratore, a volte troppo lento e confidenziale, troppo lineare anche se efficace. Qualche guizzo improvviso non avrebbe fatto male.
Il Francesco d'Assisi di Maximilian Nisi, anche se vagheggiava una aria romantica, è stato convincente. Avrebbe dovuto distinguere meglio il passaggio dalla gioventù sfrenata, ribelle, alla sua scelta spirituale.
Bernardone era interpretato da Maggiorino Porta che l'ha disegnato un po' troppo esterno, un po' caricaturale, sopra le righe. Avremmo preferito un personaggio più ambiguamente egoista, possessivo. Antonio Pierfederici doveva disegnare il prete di San Damaniano, un semplice parroco. Ha assolto bene il compito indulgendo un po' troppo sui risvolti un po' divertenti del personaggio. La schiera dei Fratelli era composta da Gaetano Lizzio (Masseo), Andrea Nicolini (Elia), Massimo Di Michele (Leone), Danilo Bertazzi (Silvestro), Fabio Massimo Amoroso (Bernardo), tutti ben orchestrati anche se si sono abbandonati più sul versante della spensieratezza giovanile che su una presa di coscienza del grande cambiamento epocale che era insito nella proposta di Francesco. Un po' di secondo piano le parti femminili. Frida Bruno era Chiara, mentre Sara d'Amario era Giacoma De' Settesoli. Entrambi efficaci nei loro rispettivi ruoli. Meritevoli di citazione anche il vescovo di Nicasio Anzelmo (il Vescovo) e Danilo Bertazzi (il lebbroso).
Lo spettacolo, replicato per sei serate, ha registrato una presenza massiccia di pubblico con sempre grande e meritato successo.
MARIO MATTIA GIORGETTI, Sipario, agosto-settembre 1998




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