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Il Corriere della Sera - La recensione di Vittorio Brunelli
 

Giallo cattolico con mini-investigatrice
Nei romanzi gialli il detective che cerca di scoprire la verità e di smascherare il colpevole è di solito un uomo esperto, spesso arguto e saggio, capace di vedere «oltre» l'apparente, come Sherlock Holmes, Poirot o Maigret. Non è mai una ragazza che va ancora a scuola, quindicenne, curiosa e magari anche un po' pettegola e rompiscatole come Anna Callifer nella commedia di Graham Greene Il capanno degli attrezzi, che l'Istituto del dramma popolare ha presentato, per la regia di Sandro Bolchi, nella piazza del Duomo di San Miniato. Ma il personaggio si spiega abbastanza facilmente, perché Greene ha costruito, naturalmente a tesi, un giallo cattolico — come l'hanno definito lo stesso Bolchi e il direttore artistico dell'Istituto sanminiatese, Marco Bongioanni — nel quale la verità che conta è un prodotto del candore, dell'innocenza, e permette all'Onnipotente di manifestarsi in questa valle di lacrime. Ha impersonato Anna Callifer, in questa versione del «Capanno» riadattata da Bolchi, la giovane attrice Joyce Leoni, una biondina pepata che ha il solo difetto, dato l'assunto, di apparire un po' troppo maliziosa. Ma è un peccato veniale: il giallo cattolico non perde certo per questo la sua consistenza, secondo le intenzioni di Bolchi, che è uno specialista di Greene e ne condivide, a quanto pare, lo spiritualismo.
Il «Capanno» è, per l'Italia, una novità relativa, perché fu già recitato, quasi 30 anni fa, al Teatro del convegno di Milano, essendone regista e curatore Enzo Ferrieri. In altre parole questa di San Miniato potrebbe essere reputata una vera riscoperta, se non altro perché Bolchi, condensato il testo, è pervenuto a una interpretazione originale, ottenendo dagli attori un felice stato di tensione.
La vicenda è ancorata in buona parte all'alcool. Si affida al whisky, infatti, il prete William Callifer, che annega nella bottiglia scozzese il dispiacere di aver perduto volontariamente la fede in Dio, rimanendo tuttavia parroco «per spirito di servizio». Sono casi strani, quelli del «Capanno», che hanno fatto dubitare fortemente dell'ortodossia religiosa di un uomo che aveva aderito in giovane età alla Chiesa di Roma, intomo al 1927, senza perdere lo spirito delle ribellioni protestanti e anglicane alla dottrina cattolica. Sarebbero però più strani se non rientrassero in un disegno astuto, proprio di uno scrittore che piega la realtà alle sue complesse e ardite architetture mentali.
Si resta in sospeso a lungo. Si accenna, nella prima parte del «Capanno», a qualcosa di terribile accaduto molti anni prima. Se ne parla tormentosamente mentre muore un vecchio ateo, fratello del sacerdote bevitore, assistito dalla moglie e da un discepolo miscredente. Arrivano i parenti, compreso il figlio James, che era rimasto estraneo alla famiglia e aveva abbandonato la giovane moglie. Si apprende che in fondo a una villa della proprietà Callifer, in un capanno di attrezzi agricoli, James aveva tentato, da ragazzo quattordicenne, di impiccarsi con una corda.
Ma egli non ricorda più nulla: è una circostanza, queste della smemoratezza, che permette l'opportuno intervento di uno psicoanalista, secondo la moda del tempo. Alla fine si viene a sapere, grazie ai ricordi della madre e dello zio prete, chiamato in causa dalla ragazza detective, che James, sconvolto dal contrasto fra l'ateismo senza quartiere del padre e la fitta religiosità dello zio, era stato salvato dalle conseguenze dell'impiccagione grazie all'irruzione nel capanno di quest'ultimo e alla sua prontezza a sacrificare la fede in cambio della vita del ragazzo. C'era stato un miracolo? La questione resta sostanzialmente impregiudicata, ma permette il trionfo finale dello spirito religioso e il preannuncio di un nuovo matrimonio fra James e la moglie Sara, che avevano in precedenza divorziato perché — dice Greene — l'ateismo non aveva fatto fiorire il rapporto coniugale. E' un'idea peregrina, come tante altre espresse da Greene, secondo il quale tutto ciò che è incerto, oscuro, anzi tenebroso, è vitale, mentre non lo è ciò che appare razionale.
Di fronte a queste tortuosità il pubblico rimane indifferente, pur apprezzando, in genere, la religiosità del pezzo. Ancor più ha apprezzato la bravura degli attori: di Carlo Simoni, che era James, della «detective» Joyce Leoni, della sensibile Margherita Guzzinati che era Sara, del bravissimo Mario Maranzana nelle vesti del prete ubriacone, di Giorgio Bonora, di Regina Bianchi, di Enrico Baroni, di Sergio Fiorentini e dell'intramontabile Rina Franchetti. Bolchi, che era ostile agli spettacoli all'aperto, qui a San Miniato ha cambiato idea avendo potuto agire sul sagrato del Duomo, in una scena mirabile per l'ampiezza e la profondità, che ha contribuito al successo dell'opera di Graham Greene, che aveva forse bisogno di un simile contenitore.

VITTORIO BRUNELLI, Il Corriere della Sera 18 luglio 1987




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