Teatro dello spirito tra magia e musical
È possibile proporre un teatro di ispirazione religiosa che riesca ad essere persuasivo nell'intima forza del messaggio, suggestivo nell'invenzione scenica, ben calibrato nei ritmi narrativi e lievi ed aereo nella orchestrazione delle parole e delle immagini? Tanto da darci l'impressione della nitida semplicità della parabola e del fantasioso colore della fiaba? È possibile ma non è facile: sfasature, smagliature, brusche cadute nella banalità o, viceversa, eccessive forzature retoriche, sperperi di linguaggi, figurati, ostentazioni di simboli o di didascalie moraleggianti costituiscono rischi frequenti.
L'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato ha giocato quest'anno d'azzardo con la prima europea di Ti-Jean e i suoi fratelli di Derek Walcott; ed ha brillantemente vinto la scommessa. Così, a vent'anni dalla scomparsa di Don Giancarlo Ruggini, che nel 1947 fu uno dei fondatori di questo teatro dello spirito, non edificante né dogmatico ma intensamente problematico, la citta di San Miniato ha saputo ricordarlo in maniera partecipe e provocatoria: attraverso l'amato teatro che per Don Ruggini poteva ben essere un'insolita forma di oratorio o di pastorale: e grazie a una fiaba drammatica (cioè ad un racconto fiabesco in cui predomina, spiritualizzato, l'elemento magico), trasformata in commedia musicale. Con tutto quello che il genere comporta in termini di linguaggio e di tecnica espressiva. Insomma, la storica Piazza del Duomo, dove negli scorsi anni sono stati rappresentati testi di Eliot e di Mauliner, di Strindberg e di Bernanos, di Milosz e di Wiesel, di Claudel e di Greene, e di Betti, Enriquez, Chiusano, Luzi, Fabbri (e va rammentato anche il Giobbe di Karol Woityla, messo in scena nel 1985), ha assistito, per la sua quarantasettesima festa, a uno spettacolo vero e proprio: gli attori della Compagnia di Remo Girone hanno recitato, cantato e danzato, in un fervore sonoro e visionario di luci, musiche, costumi, che ha avuto il suo grande ideatore e regista in Sylvano Bussotti.
Ti-Jean e i suoi fratelli è un'opera giovanile di Derek Walcott, scrittore caraibico, vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1992 e pubblicato in Italia da Adelphi (di lui la casa editrice milanese ci ha già offerto una raccolta di poesie, Mappa del mondo nuovo e i due testi teatrali Sogno sulla Montagna della Scimmia e, appunto, questo Ti-Jean che, dopo la settimana di presenza sanminiatese, emigrerà in varie piazze d'Italia): una fiaba, dicevamo, il cui tema — la lotta tra il Bene e il Male — è modulo ricorrente in una enorme quantità di storie, con infiniti sviluppi e varianti. In questo caso particolare, c'è un innesto della novellistica di area mediterranea — con probabili nuclei di età medioevale, importati dai conquistadores — nella frondosa, colorata pianta del folklore caraibico, in un proliferare di simboli cristiani mescolati a residui animistici e paganeggianti.
In una capanna simile a un nido d'uccello, una povera vedova vive insieme ai suoi tre figli: Gros-Jean, forte di muscolatura, ma vanaglorioso e sciocco; Mi-Jean, tutto preso dai suoi studi e dalla sua presunzione intellettuale; Ti-Jean, puro di cuore, innocente e proprio per questo dotato di una più sicura corazza interiore, il Diavolo — che via via assume la veste del Vecchio Uomo dei Boschi e del Crudele Piantatore Bianco — li sfida: divorerà chi di loro non riuscirà a tenergli testa e si farà prendere dall'ira, ed invece ricoprirà d'oro chi si mostrerà tanto bravo da far arrabbiare proprio lui, l'Angelo Caduto. Il vincitore sarà Ti-Jean: c'è in lui l'innocenza robusta di chi non ignora l'esistenza del male, l'atteggiamento solidale nei confronti della Natura (il Grillo, la Rana, la Lucciola e l'Uccello che, nella vicenda, sono Commentatori, Mediatori ed Aiutanti), la determinazione del giovane intrepido, che non scende a patti col Demonio e, anzi, lo schernisce e lo umilia. I fratelli moriranno, lui trionferà, liberando dalla zona oscura, dove signoreggia il Demonio, il Bolom, ovvero il Bambino Non-Nato, che ha voglia di vivere, di godere e di soffrire.
Al lieto fine si giunge lungo una serie di sequenze che coinvolgono lo spettatore nelle più disparate emozioni, tra divertimento e sgomento, grazie alla abilità degli attori (mattatore è il «Diavolo» Girone, ma molto bravi sono anche gli altri, soprattutto il Bolom-Massimo Fedele e Ti-Jean - Gianni De Feo), alla sapienza compositiva del regista, alla festa di suoni e di colori che illeggiadriscono perfino l'orrore. Seppellito sotto la sottile ironia dell'innocenza, Lucifero diventa una patetica stella spenta.
MARIO FEDERICO ACCIARI, Secolo d'Italia 20 luglio 1993
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