La recensione
Teatro in cerca di redenzione
C'è ancora spazio per una drammaturgia dello Spirito, oppure il teatro, anche il teatro, è ridotto a riflettere una «terrestrità» povera di tensioni ideali? Di ciò si è discusso per due giorni al Centro studi "I Cappuccini" di San Miniato, in occasione della 45a Festa del Teatro promossa dall'Istituto del dramma popolare.
Le due giornate di studio si sono concluse con la presentazione della figura e dell'opera di Graham Greene: un «avventuriero dello spirito» il cui cattolicesimo era rifiuto del comfort fideistico, «slealtà» verso il «disordine costituito» della società, intelligenza con l'umanità lontana e perduta.
Di Greene è stata rappresentata sulla piazza del Duomo, lato valle, una riedizione della versione teatrale di Cannan e Bost di Il potere e la gloria che Squarzina, traduttore e regista, aveva proposto qui nel '56, interprete Tieri nella parte del prete abietto ed eroico che nel film di Ford era stata di Fonda. La regia di questo dramma della fede introvabile, ma ostinata fino al martirio, era questa volta di Sbragia, anche interprete, con accanto il figlio Mattia nel ruolo antagonistico del tenente di polizia che sostiene faziosamente le ragioni di una rivoluzione atea.
Ho già parlato a lungo e di recente, su questo giornale, di Il potere e la gloria e mi ritengo perciò esonerato dall'obbligo di intrattenere il lettore sui contenuti e sul senso della ripresa sanminiatese, che inaugura un periodo di doverosa rivisitazione dell'opera di Greene a quattro mesi dalla morte.
Sbragia ha lavorato sulla versione di Squarzina, svelta ed efficace, e ha chiesto allo scenografo Polidori un dispositivo scenico rotante, al centro di un'accidentata piattaforma di legno, per mostrare spazi-ambienti tirati su con assi slavate dalla pioggia, a contenere i sei quadri nei quali, come in un decoupage cinematografico, è stata scomposta la vicenda. La trasposizione seguiva un disegno astratto: non il Messico folklorico che avrebbe rinviato al film di Ford, ma un meno definito, arcaico luogo sudamericano dove il calvario del protagonista fra le vicende della rivoluzione atea si poneva essenzialmente come una contesa fra l'«uomo del cielo» (il prete alcolizzato e in fuga, padre inadempiente di una figlia avuta da una contadina, ma che si riscatta consegnandosi al plotone d'esecuzione nel portare l'assoluzione a un assassino) e l'«uomo della terra» (il tenente che, come un arcangelo marxista crede nella giustizia protetta dalle armi).
Questa lettura scarsamente geostorica (il Messico era, nella nudità dell'allestimento, appena accennato dalle divise e dai costumi di Ciammarughi) ha contribuito, almeno in parte, a spolverare un testo di generosi impeti ma anche di limitazioni manichee.
Sbragia interprete assume, con tutte le risorse di un mestiere sicuro, la figura e il destino del prete in fuga, di cui fa un relitto umano tra le fiamme di un inferno terrestre, che ha ribrezzo di sé, ma poi, nella tremenda felicità della riscoperta della condizione sacerdotale, trova la forza della redenzione. Alla sua interpretazione vigorosa e febbrile, dostoevskiana, si oppone, con nitide simmetrie, quella del figlio Mattia: un tenente di fanatico rigore, scattante efficientismo, brusca umanità.
Fra i più che venti attori chiamati a essere il coro dolente segnalerò Margherita Baffico, la donna del prete indurita nell'orrore; Elio Veller, efficace nel rendere l'ambiguità del dentista che «fa fuggire» i preti; Antonio Barpi, cantiniere e vecchio prigioniero tormentato dalla paura e dai rimorsi; e, nelle parti dei «malvagi» e dei «corrotti», per il rilievo delle loro caratterizzazioni, Camillo Milli, Pino Michienzi, Giancarlo Cortesi; nonché Valentina Emeri, esagitata zitella, Massimiliano Franciosa, Maura Catalan, Salvatore Corbi. Applausi intensi del pubblico edificato, anche fra i vari quadri scenici.
UGO RONFANI, Il Giorno, Milano, 20 luglio 1991
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