La recensione
Processo ai Gesuiti sulla piazza di San Miniato
Un grave dibattito, quello che Diego Fabbri ha avviato sulla antica piazza, di San Miniato con la sua Veglia d'armi e che dalla angoscia di una creduta disfatta risale alla riconquista di un trionfante amore. Non si può dire che l'autore manchi di audacia nell'impostare, come fa qui, i suoi quesiti religiosi e non sempre fra le righe va rivelando anche una irrequietudine polemica insolita fra gli scrittori cattolici italiani che usino affrontare il gran pubblico.
Veglia d'armi è stata suggerita da una data solenne: quella del quarto centenario della morte di Sant'Ignazio, fondatore della Compagnia di Gesù. Quattro secoli di una battaglia condotta con sottili accorgimenti tattici contro il nemico e che non risparmiò ai gesuiti né il martirio né la diffamazione. Con quale risultato? Da ogni parte dell'orizzonte sono convenuti a consulto dal Direttore cinque rappresentanti della Compagnia. Il mondo è sull'orlo del precipizio. Già si ode il barbaro galoppo dei cavalieri dell'Apocalisse: chi può fermarli se non altri cavalieri altrettanto indomiti e sfrenati, come questi sacerdoti di fede provata? Non si raduneranno in sacrestia ma in un grande albergo che risuona di orchestrine la cui futilità appare tragica di fronte alla minaccia incombente. Si ritrovano cioè in mezzo a quel mondo che pare votato alla rovina totale e che essi furono chiamati a governare verso la salvezza.
Ora bisogna parlarsi schiettamente, senza indugi e senza reticenze. Rivelare i tormenti segreti che inutilmente si cercò di nascondersi. Il più giovane e ardimentoso fra i convenuti giunge dalla Russia dove non ha mai cessato di predicare a viso aperto poiché occorre affidarsi alla lealtà di chi ci crede e che ci protegge meglio di qualunque clandestinità. L'appassionato Stefano tronca ogni preliminare per chiedersi e chiedere crudamente se la secolare battaglia non si va concludendo nella sconfitta; se non si mancò al comando del Fondatore «di far cristiana la storia» e se invece non si è preferito con incauta astuzia esserne solo degli «abili restauratori». Triste abilità, che si illuse di servirsi dei potenti e ne divenne strumento. Il risultato fu di contaminare la fede con la politica, cioè con l'orgoglio del dominio che rende schiave le anime: ima tacita complicità da cui è assurdo aspettarsi la salvezza e delude ed umilia coloro che hanno più bisogno di aiuto e di conforto. Chi si allea con i capi non può che condividerne le sorti.
Il rimprovero cade soprattutto su Pedro, il gesuita che opera in Spagna, ed è il più inquinato dal compromesso. Pedro confesserà di essere già giunto anch'egli a quelle desolanti conclusioni che lo hanno abbattutto e sconvolto. Ma i capi non preoccupano Parrei: egli non si rivolse alla politica ma alla fisica nucleare acquistando una grande autorità, e ne ha tratto la certezza che in breve tempo, essa li renderà innocui, alla mercé degli scienziati. Ma la scienza, questa scienza, se anche potrà portare, sotto la minaccia della distruzione, ad un generale benessere, è davvero un mezzo, uno strumento per riaccostarsi a Dio? Sì, ci riconduce alla «idea» di Dio, ma direttamente, senza rivolgersi al misericordioso Mediatore che ci protegge dalla sua terribile potenza. La scienza si va facendo «troppo piena di Dio e troppo vuota di Cristo» e «sta per nascere un uomo religioso, credente, che potrà perfino non essere cristiano». (Si riprecipita dunque nella sfida trice superbia del peccato originale?) Si giungerà a commemorare il sacrificio di Cristo come il mito di una civiltà passata.
Questi uomini si sentono sperduti. Dove, quando sbagliarono? Viene da pensare che in essi sia venuta a mancare senza che se ne accorgessero la grazia efficace, e sia rimasta loro solo la grazia sufficiente. Consapevoli della loro responsabilità ma non più chiamati irresistibilmente verso una strada luminosa e sicura. (Per associazione di idee, proprio in questo 1956 compiono trecento anni le Provinciales di Pascal, mentre il giansenismo pare sia animato da fremiti di risveglio). Quale uso si fece del libero arbitrio se non di condannarci alla sconfitta? Ma il più semplice, rozzo, elementare di tutti, il negro Hudson ha serbato nel suo cuore la virtù salvatrice: il violento, sanguinario amore di Cristo, che rese fertili le zolle dove venne piantata la croce mutandola in un albero gigantesco le cui radici sprofondano nel cuore del mondo ed i rami imprigionano tutte le anime. Al pensiero di Dio di Parrei deve aggiungersi il sentimento di Dio per fecondare questo tempo in cui molti credono ma senza amare. La certezza «sanguinaria» di Hudson rincuora e vince lo spavento.
Ora giunge Alessio, uno dei sacerdoti attesi, anch'egli, da oltre cortina. Reca la proposta di un accordo che pare suggerito dai capi di quelle terre. Infatti egli non è un sacerdote ma un agente segreto che prese il posto del gesuita catturato, per avviare appunto quelle trattative. La politica cacciata dalla porta rientra dalla finestra e nonostante quel che se ne disse viene accolta con favore da Pedro e accettata sia pur con rimorso dal Direttore.
Lo spagnolo ed il russo si intendono: gli estremi si toccano. Dalle trattative sono esclusi i tre gesuiti dei quali abbiamo parlato. Non sono affari per loro, come è evidente, ma, sono anche affari che non si possono trascurare poiché l'accordo richiesto pare dettato da una autentica sete di fede, da uno smarrimento che cerca soccorso nelle vecchie e «stupide» parole di preghiere che si credeva di aver sepolte nelle tombe dei padri. Si tornerà dunque agli inganni della politica?
Ecco rivelarsi uno strano personaggio che fino allora era apparso in momenti stranamente significativi. Noi sappiamo già chi è. Ce l'ha rivelato l'intermezzo durante il quale egli, il maìtre del grande albergo, avviò un nostalgico colloquio con un altro altrettato misterioso personaggio: Francesco Saverio, il compagno di Ignazio di Lojola. Ed è Ignazio, il maìtre, colui che conduce le fila della riunione, aiutato dal confratello. Si rivela dunque ai tre gesuiti rimasti soli (cioè esclusi dalla politica), li conforta ed esalta; perché essi sono coloro che insieme potranno appiccare il fuoco al mondo: inaugurare finalmente un'altra storia, cristiana. Ma insieme: il pensiero sublime di Dio che si incarna nella attività eroica sotto il calore di un inesausto amore. E la «politica» sarà definitivamente sconfitta. Il Direttore e Pedro rinunceranno umilmente ai loro disegni.
È dunque il momento di ricominciare la lotta, rifacendosi dal principio, senza lasciarsi ingannare da vittorie effimere? Di ritornare ai primi insegnamenti di Sant'Ignazio, riarmando la volontà, una volontà illuminata ad ogni passo dall'amore? E che ne pensa Roma? Il suo emissario mancò al convegno, e mandò in sua vece un telegramma dove si ravvisava «l'opportunità di rinviare l'incontro». Che significa? Non si osa credere a disinteresse o a sfiducia. Non c'è piuttosto il proposito di non interferire nello svilupparsi fecondo del conflitto perché ognuno non sia influenzato o intimidito, ma ritrovi in se stesso la responsabilità della propria missione?
Questi, grosso modo, gli argomenti (e le sospese domande) del dramma, che si avvale naturalmente di altri e sottili motivi. Il dialogo è appassionato, «impegnato», avvincente, e il suo tono si fa spesso alto, commosso. Il tormento di questi personaggi è sincero, le loro nude confessioni tremanti d'angoscia. Ma quel che stupisce in un autore tanto abile come Fabbri è trovare come siano improbabili, perfino artificiosi, gli appigli, le occasioni a cui ricorre per ravvivate teatralmente la vicenda. È prova di umiltà o sfiducia nell'interesse del pubblico per i problemi che gli impone e senza dubbio esigono una lunga attenzione? Quel falso Alessio, quella ragazza russa che vuoi convertirsi, quei due amanti che danno modo a Hudson di rivelare la vera essenza dell'amore, quell'inutile poliziotto, manifestano troppo apertamente la loro funzione prettamente meccanica di pretesti. L'architettura del dramma non è insomma armoniosa e contrasta stranamente con la sua intensità genuina. Ci sembra che Fabbri si sia lasciato prendere dalla paura di apparire «noioso» e invece il più bel coraggio per un autore è di esserlo deliberatamente.
La interpretazione, sotto l'accuratissima regia di Grazio Costa, è stata quasi tutta eccellente. Qua e là forse non è riuscita ad ovviare ai rischi di una accentuata eloquenza. Ma esemplare per la misura, per il contenuto vigore, la recitazione di Aldo Silvani. Un bravissimo Pedro è stato Augusto Mastrantoni, efficacissimo Annibale Ninchi nelle vesti del negro Hudson. Ottimamente Tino Buazzelli, il Direttore. Assai bene Sergio Fantoni. Come sempre sicuro, autorevole, simpaticissimo Arnoldo Foà (Sant'Ignazio). E ricordiamo fra gli altri Luciano Melani e Alessandro Sperlì. Buona la scena di Misha Scandella però fatta più per un palcoscenico normale che per questa piazza. Il successo è stato vivissimo. Lo spettacolo si replicherà fino al 2 settembre.
MASSIMO DURSI, Il Resto del Carlino, Bologna, 30 Agosto 1956
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