Eretico Strindberg con Massimo Foschi
Strindberg a San Miniato, in cima a questi ameni colli toscani che, ricordi carducciani a parte, sono dal '47 aperti ai venti dello spirito cristiano, per gli eventi che - primo patrocinatore Silvio d'Amico - ha saputo suscitare l'Istituto del Dramma Popolare. Il sulfureo autore di Danza di morte e della Signorina Giulia nella stessa piazza, circondata da chiese e palazzi vescovili, dove risuonò la parola di Bernanos, Claudel, Greene, Fabbri, Pomilio.
Un'eresia, dunque? No, rispondono gli organizzatori, che hanno scelto La grande strada maestra per la Festa del Teatro 1990. La conferma, piuttosto, che l'I.D.P. dà alla drammaturgia religiosa non il ruolo agiografico o edificante delle epoche confessionali, ma il senso di un dibattito spirituale.
Ora, quale testo più di questo «testamento spirituale» di Strindberg - scritto tre anni prima di morire, nella solitudine e nella disperazione, per «regolare i conti» con tutti, borghesi e potenti, femministe e scrittori, ma anche per combattere l'ultimo round del suo combattimento con Dio - risponde alla «ricerca infuocata della fede» che, diceva Fabbri, è e deve restare il tema degli appuntamenti di San Miniato.
Scrivendo per l'Intima Teater di Stoccolma, dopo La sonata dei fantasmi e Il pellicano, La strada maestra, Strindberg dà l'addio alla sua esistenza tormentata. Come Eliot, ma in altro senso, attinge alla Divina commedia di Dante, avendo in mente il Faust goethiano; ma la miscela che ne risulta è
quella di un misticismo allucinato e di umori e malumori terreni. Le sette stazioni del dramma ricostruiscono - con lo stesso passo epico-religioso di Ibsen, quello di Quando noi morti ci svegliamo - la sua lunga marcia fino allo zenit di un Nulla che non è più tale, ma un Aldilà possibile. Quando il Cacciatore di questo Stationen-drama, che è il suo fantasma letterario, abbandonato dal Viandante (il suo doppio), davanti alla selva oscura del Nulla (perché il cammino, qui, è l'opposto di quello della commedia dantesca); e il Tentatore gli annuncia la «scadenza prossima», la sua ultima preghiera resta ambigua: «Eterno, non lascio la tua mano.../ Benedicimi, benedici l'umanità che soffre / perché Tu le hai dato la vita./ Benedici per primo me / che ha sofferto l'atroce dolore / di non essere colui che volevo essere». Preghiera blasfema? Il rimprovero a Dio di aver creato l'uomo? Rabbia dolorosa di non essere stato, lui, un dio? O la luce della fede attraverso un'umile ammissione di impotenza? Il dibattito intorno a La strada maestra è questo.
Impresa difficilissima rendere la visionarietà fremente del testo, che il traduttore Groppali ha reso in tutta la sua dignità letteraria. Il regista Morini, attivo sui due fronti teatrale e televisivo, si è attenuto a una forma quasi oratoriale (e ha fatto bene).
Massimo Foschi è il Cacciatore: uno Strindberg che realizza l'egotistica centralità del personaggio con una dizione corposa, una gestualità esacerbata, una eccitazione continua nella confessione. Il Simoni è un Viandante capace di mefistofeliche provocazioni; come la coscienza trasgressiva dell'altro. Milena Vukotic è sempre presente con la sua sensibilità nei personaggi femminili, e in quello del Tentatore: angelo-demonio, proiezione ai vari gradi della misoginia di Strindberg. Giancarlo Condè, di potente espressività, conduce il sabba dei personaggi negativi, secondato dal Gragna e dal Cascio (Muller l'assassino). Ben calibrate le figure dell'eremita profetico e dell'atarassico giapponese disegnate da Mico Cundari. Attenzione nel pubblico.
UGO RONFANI, Il Giorno, 22 luglio 1990
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