Scale altissime per assalire il cielo
A coloro che, quando si parlava di mettere in scena a San Miniato il dramma di Cesbron, È mezzanotte, dottor Schweitzer!, si chiedevano costernati come si potesse allestire un dramma simile in una piazza e come su quella piazza costruire una giungla, Luigi Squarzina ha dato una magnifica risposta. Pochi altri luoghi, come la storica piazza di San Miniato, folta intorno di alberi stormenti e chiusa alle spalle dalla facciata della chiesa, sono apparsi così adatti allo scopo. Nell'oscurità della notte, rischiarata dagli opportuni e ben dosati giuochi di luce, abbiamo visto profilarsi, tra le canne e gli arbusti della boscaglia, l'interno di un «bungalow», assestato a ospedale, con lo studio del dottor Schweitzer in primo piano, la stradetta dinanzi per giungervi e i tralicci altissimi, quasi scale per assalire il cielo. In questo scenario di una semplicità sorprendente, ricco di echi e di slanci, dovuto a Gianni Polidori, il dramma ha svolto le sue fasi, in piena libertà, respirando ampiamente.
Un esempio di carità. L'ottava festa del teatro si è celebrata in San Miniato all'insegna del Dramma Popolare nella parabola del santo laico, dottor Schweitzer, che Gilbert Cesbron ha tratto dalle cronache della prima guerra mondiale e innalzato a vertice dell'amore. Il suo dramma, cantato su cinque corde, si inquadra senza sforzo, pur deviando un poco dalla primitiva linea agiografica, nell'impresa dell'Istituto il cui fine, dalla fondazione, è di riportare alle folle inquiete e sbigottite la luce dello spirito, Cesbron ha colto il personaggio nell'atto della sua dedizione, quando, abbandonate la moglie e la figlia dilette, lasciate le abitudini di scienziato lento e metodico e le ambizioni già corrisposte di valente organista, dopo aver rinunciato alla cattedra universitaria di medicina, che pure è così presso al suo cuore, è accorso a un misterioso richiamo e dalla nativa Alsazia s'è stabilito in Africa, sulle rive del Congo. La popolazione di quei luoghi — in quei primi anni del secolo — è l'espressione di ciò che l'uomo non dovrebbe essere, sommersa dalla miseria e dall'ignoranza. La superstizione vi impera incontrastata e i bambini malati vengono immolati come preda del demonio. Schweitzer s'è opposto a tutto questo: è riuscito a vincere con l'arte medica, ma più ancora con la sua abnegazione, la diffidenza dei negri, e a chiamarli alle sue cure di cui la lampada che brilla nella notte all'ingresso del «bungalow» è il simbolo scintillante. Lo ha seguito un'infermiera francese, Maria, che Schweitzer chiama scherzosamente «Baluala», «colei che non ha scelto ancora»: Maria è infatti ancora incerta non nell'azione, ma
nel senso da dare all'azione, se la vita sia tutta nel di qua o se debba essere vista soltanto come prova e preparazione del dilà. E Maria aiuta lo scienziato nel compito che questi s'è prefisso: ridare ai negri la gioia di vivere, farli partecipi della sua umanità: un dono di fede. Gli indigeni hanno risposto. Altri tre personaggi si muovono intorno ai primi due: un prete cattolico, padre de Ferrier, tutto volto al Regno, il governatore della regione, Leblanc, l'uomo di tutti i giorni, normalissimo e quieto, e Lieuvin, l'ufficiale, l'uomo dell'azione eroica, il servo della patria, la Francia, a cui tutto si deve. Tra costoro vive il dramma intimo di Maria, sensibile alla gioia terrena che l'uno di essi, Leblanc, le promette, ma assai più a quella ideale e avventurosa dell'altro, Lieuvin. Ed è a Lieuvin che la donna offre una promessa d'amore, il giorno in cui un evento tragico di proporzioni inaudite impone la scelta. Ma è a Schweitzer e a padre Ferrier che d'ora innanzi ispirerà la sua azione: al sacerdote pel verso dell'azione, allo scienziato pel modo di praticarla. La guerra è scoppiata in Europa e contagia anche l'Africa. Non c'è scampo per i buoni: subire o morire. Schweitzer sceglie il campo di prigionia; de Ferrier è ucciso, mentre prega, dai negri della colonia tedesca, vittima immacolata dell'odio; Lieuvin parte: Maria resta coi negri, ai quali — ammaestrata da Schweitzer — darà il meglio della sua esperienza. Leblanc continuerà a vivere come sempre dall'uomo comune ch'egli è: sarà lui a spegnere la lampada del bianco sul fiume, la lampada accesa da Schweitzer.
Una tecnica classica (scena fissa, azione nelle ventiquattro ore) al servizio di uno spirito da sacra rappresentazione: nelle mani di Cesbron il fatto di cronaca è diventato messaggio d'amore. Non stiamo e sofisticare: seppure l'autore si studia di conservare la massima oggettività e la chiusa sembra illustrare la sconfitta dell'amore. In realtà chi vince è proprio l'amore, nel modo che gli è più consueto, perdendo e rifacendosi da altro lato. La decisione di Maria, al termine di un'incertezza angosciosa, lo conferma chiaramente; in questo senso, È mezzanotte dottor Schweitzer!, è anche il dramma della scelta, il dramma della vocazione. Peccato che l'ascetica sobrietà, alla quale l'autore dei Santi vanno all'inferno ha improntato il dramma, non abbia trovato sempre nella parola la realizzazione più drammaticamente concreta. L'altezza dei concetti, la bellezza e la purità dei sentimenti, sono così rimasti in una sorta di limbo teatrale, vivi sì, ma lontani; non sfocati, ma estatici.
Luigi Squarzina ha dovuto dunque sostenere il peso di un testo calato in un ambiente esotico, ma fermo nelle sue posizioni psicologiche, tranne che per Maria; un testo basato sulla parola. Nella stupenda scena del Polidori, manovrando di luci con perizia già consumata, creando il colore e il senso del luogo con grappoli di tam-tam e suoni d'organo e accordi di piano e nenie africane, curate queste dal bravo Bianchini, e alternati secondo il tema dominante, il regista ha abilmente mosso gli interpreti. Ma non sempre gli interpreti hanno aderito compiutamente ai loro personaggi o quanto meno hanno prestato loro la loro nota più viva; o forse gli stessi personaggi hanno influito sull'attore secondo la loro carica creativa. Ecco perché nominiamo per primi Elena Zareschi e Carlo Ninchi; l'attrice, vibrante nel personaggio di Maria, pervasa da una assidua irrequietezza, cha ha avuto la sua pace nella commossa e commovente omelia sul corpo del fanciullo risanato, l'attore, così sugoso, nel suo Leblanc, il governatore, da conferire partita vinta all'uomo comune e provocare uno squilibrio, per quanto cordiale (le adesioni del pubblico andavano a lui e alle sue teorie, mentre non era precisamente questo l'intento finale del Cesbron). Il che non ci vieta di rendere il dovuto omaggio alla bella fatica di Ernesto Calindri che ha dato quanto di scioltezza era in lui al suo Schweitzer, di Mario Feliciani, che avremmo amato meno patetico, meno enfatico, nel suo Ferrier, di Giorgio Piazza, che ha recitato con vigore, disegnando un Lieuvin assai corretto. Forse, avrebbe giovato una diversa distribuzione delle parti (Ninchi al posto di Calindri e viceversa).
Lo scoccare della vera mezzanotte ha coinciso alla «prima» col gesto di Leblanc che spegneva la lampada dell'uomo bianco; e, quasi che il cielo fosse d'accordo col regista, spenti gli applausi, s'è riversata la pioggia.
Achille Fiocco, La Fiera Letteraria, Roma, 5 Settembre 1954
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