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La recensione di Paolo Emilio Poesio
 

In un' arena da circo a lumi spenti
Una volta di più gli uomini di teatro si sono dati appuntamento a San Miniato: per essere esatti, quella di iersera è stata la dodicesima volta che l'Istituto del Dramma Popolare ha celebrato San Genesio — l'attore-martire patrono degli attori e della città di San Miniato — con uno spettacolo di prosa. Dodici anni: pochi e molti insieme. Moltissimi per quanto attiene al teatro che da noi, come tutti sanno, non brilla davvero per esemplari doti di continuità.
Ancora, aggiungeremo che questa resistenza al tempo è tanto più ammirevole, in quanto il repertorio dell'Istituto del Dramma Popolare ha talune sue precise caratteristiche fisionomiche: non può attingere, ad esempio, agli ultimissimi ripieghi dei classici rispolverati di regola da tutti i festivals che sono in giro, non può rifarsi alle pagine leggere — se non sempre leggiadre — dei commediografi inclini a vedere il mondo color di rosa.
Quando, agli albori della sua attività, l'Istituto si propose di allestire, anno per anno, opere teatrali che avessero come fattore comune la problematica del mondo nostro, il complesso di conflitti che travagliano l'uomo contemporaneo, la impresa parve esorbitante. Si dice e si ripete da più parti che questa stagione della storia rifugge da dibattiti intimi approfonditi:  si dice e si ripete che la sociteà si è incamminata sulla via della negazione dei valori spirituali. Eppure uno sull'altro, dodici spettacoli hanno dimostrato che tali affermazioni non rispondono per intero alla verità.
Ultima testimonianza in ordine di tempo, questo J. B. di Archibald MacLeish, il dramma andato in scena iersera sulla piazza del Duomo di San Miniato, con la regìa di Luigi Squarzina e un forte nerbo di ottimi attori per interpreti.
La singolare sigla, J. B., potrebbe apparire misteriosa: ma, se fate attenzione, potrete avvertire, pronunciandola, il suono pressoché identico delle due sillabe necessarie a formare il nome di Giobbe. Una revisione del personaggio biblico? Una nuova interpretazione del Libro di Giobbe, uno tra i più belli e più determinanti e luminosi del Vecchio Testamento? Mettiamo le cose a posto: MacLeish non ha voluto operare come altri commediografi e drammaturghi, non ha voluto, cioè, rinverdire con nuove fronde il dramma di per sé compiuto e vitale di Giobbe. Ha, se mai, voluto prospettarne lo scorcio nei termini di un nostro linguaggio: di una nostra concezione di vita. Ciò facendo si è attenuto, rigorosamente, a una linea di condotta che potete dare per scontata fin dalle prime battute del testo. Ed è logico che sia così: Giobbe è un punto fermo, è una pietra miliare. Può prestarsi a suggerire all'autore una divagazione o una serie di divagazioni sul tema: ma Giobbe è intangibile. Non ne potete spostare di un millimetro la personalità, senza togliere un cardine alla sua ragion d'essere. (Questo è stato l'anno di Giobbe. Anche il Maggio musicale fiorentino ci ha offerto il Job di Dallapiccola).
Sta di fatto che proprio J. B., il Giobbe in abiti moderni, è — a conti chiusi — il personaggio meno autonomo di questi tre atti del MacLeish: egli accetta le prove più dure, accetta senza maledire, accetta senza patteggiare. La sua è una sorta di felicità dell'infelicità: e la felicità, come insegna un maestro del passato, non fornisce mai materia all'azione teatrale.
Chi, dunque, MacLeish ha incaricato di dibattere il tema? Due venditori ambulanti, l'uno dalle mani ingombre dei fili che reggono i palloncini colorati, l'altro con tanto di cassetta delle noccioline appesa al collo. Due poveri squallidi esseri che hanno un'ambizione e un'invidia: recitare, emulare gli attori che ogni sera si esibiscono in un'arena da circo. E in questo insolito scenario si svolge la narrazione del moderno libro di Giobbe. Il signor Zuss e il Signor Nickles — così si chiamano i due poveracci: e sarà inutile avvertire che se Zuss richiama alla memoria il pagano nome di Zeus, Giove, padre degli dèi, Nickles suona assai simile a «nihil», «niente» — si apprestano dunque al grande gioco. L'uno assumerà sul volto la maschera di Dio, l'altro — controvoglia — quella di Satana. Reciteranno per un pubblico inesistente, reciteranno per chiarire a se stessi, piuttosto che agli altri, le ragioni dialettiche di un contrasto insanabile.
Da questo momento, Zuss-Dio e Nickles-Satana rievocheranno la vita di Giobbe. Personificato, quest'ultimo, da J. B., l'uomo fortunato che vive tranquillo e fidente con la moglie e i figli, non d'altro pensoso che di ringraziare il Signore dal più profondo del cuore e al Signore sottomettersi, in umiltà.
Sarà necessario seguire, a questo punto, il susseguirsi degli avvenimenti? Crediamo di no: tutto, lo ripetiamo, è già sottinteso e scontato nel fatto stesso di avere chiamato in campo Giobbe. I dolori che si abbattono su J. B. sono, è vero, dolori dell'uomo di oggi: sono la morte del figlio soldato provocata da un errore di comando, la scomparsa di altri due ragazzi per colpa di un automobilastro ubriaco, l'assassinio di Rebecca da parte di un bruto che la violenta e la strazia, la fine di Ruth travolta da un terremoto che, insieme, riduce a zero le sostanze di J. B. Ma Giobbe, quello di oggi come quello di ieri, non può reagire diversamente da come tutti sanno: «Il Signore da, il Signore toglie». È il limite massimo dell'accettazione, è il limite estremo della dedizione. Giungono ogni volta i messaggeri di sciagura: ed ecco Sara vacillare. Se J. B. resiste a oltranza, la donna comincia a sentire indebolita la sua resistenza. Intanto, Nickles-Satana spinge sempre più avanti il tragico gioco: e chiede a Zuss-Dio di poter colpire J. B. direttamente nella persona, per vedere se così si fiaccherà l'ostinata pertinacia del credente. Ma il calcolo è sbagliato: coperto di piaghe e di pustole, Giobbe ripete: «Per noi non c'è scelta, dobbiamo essere colpevoli. Dio non è presente se noi ci sentiamo innocenti». Invano tre pseudo-consolatori cercano di dare risposta agli interrogativi che J. B. si pone sulla propria esistenza. Sarà la voce di Dio, sola (la voce che Zuss e Nickles ascoltano, immobili, dietro le loro maschere) a dire la parola che Giobbe aspettava.
Il dramma sarebbe, a questo punto, finito, se Nickles e Zuss non avessero ancora da porsi delle questioni: ed è questa una delle pagine più importanti dell'opera di MacLeish, quella in cui la varietà dei dubbi, degli interrogativi, delle soluzioni rasenta limiti sconcertanti di audacia e di crudezza
dialogica. E tuttavia è ancora a Giobbe e Sara, la moglie che dopo essere fuggita deve ritornare (non è questo il premio per J. B.? riavere cioè, tutto quello che gli era stato tolto) che spettano le battute conclusive. «Ma noi amiamo. Ecco il prodigio. Vedremo chi siamo, dove siamo».
Nessuna pretesa di riassumere in queste brevi note il valore intimo e autentico del testo di ---J. B.---, opera sulla quale bisognerebbe condurre un duplice approfondito discorso: riguardante in parte la delicata materia attinente la fede e, in parte, quella meno delicata e più direttamente teatrale che concerne la configurazione dei personaggi. Ci atterremo, in questa sede, solo a quest'ultimo lato della questione.
È certo che Archibald MacLeish ha assimilato con attenta intelligenza la lezione drammaturgica europea ancora prima di quella americana. Non sarebbe impossibile, con un po' di pazienza, stabilire le ascendenze dei singoli passaggi, dei singoli moduli che nutrono questi tre atti: la stessa scelta dell'ambiente scenico, quella desolata arena da circo con i banchi vuoti, con l'inconfondibile aria che assumono attrezzi e finlture a lumi spenti, dice moltissimo. Ma ciò che conta è che MacLeish ha saputo fondere e amalgamare la materia a disposizione: ha saputo trarre, insomma, una sigla propria, autentica, da questi elementi disparati che via via suggerirebbero, altrimenti, nomi e date inequivocabili.
Dei personaggi, due sono di una notevolissima forza teatrale. Ed è inutile precisare che si tratta dei due venditori di palloncini e noccioline, gli aspiranti attori trascinati loro malgrado a sostenere parti di un peso inestimabile. Giobbe, J. B., ha meno libera mano a conquistarsi una personalità autonoma: e abbiamo accennato alle ragioni che determinano questo condizionamento. Ma Sara, già più vibrante, e i ragazzi — nota lieta in cui sfuma l'eco dolente dell'amarezza — e le figure di contorno, i messaggeri, i consolatori, le vicine di casa, sono tagliati con una abilità e una precisione invincibili.
Ora, con queste premesse d'ordine generale, si può comprendere quale prezioso materiale avesse a disposizione Luigi Squarzina per la sua regìa. Materiale che egli ha valutato e soppesato a grammo a grammo, dando vita a uno spettacolo di grande respiro: uno spettacolo di prim'ordine, che occupa un posto di rilievo nella storia del teatro italiano del dopoguerra. Voci, gesti, suoni, sono stati armonizzati con una sapienza che è rara senza preziosismi, che è precisa senza distacco, che definisce ombre e luci senza forzature e senza il ricorso a espedienti di tipo epidermico. Squarzina ha scavato a fondo il copione, traducendone la densità verbale e le possibilità di azione con un equilibrio e un rigore limpidissimi.
In questa sua fatica ha trovato negli attori una collaborazione pronta e fattiva: a Mario Feficiani e a Franco Parenti è toccato il peso non indifferente di Zuss e di Nickles. E che appassionante prova è stata la loro! i due guitti si sono stagliati a tutto tondo nei loro abiti grotteschi, nei loro atteggiamenti, nei loro dialoghi. Feliciani ha portato a Zuss il calore di una dialettica calda e fervida, mentre Parenti ha dato di Nickles una sottile immagine puntata e assillante, sconvolgitrice e cinica, ma pur sempre colorata di amarezza.
Vittorio Sanipoli è stato un J. B. schietto e nobile: k sicurezza, la calma, prima, e poi il tormento, l'angoscia, la sottomissione sono stati sottolineati da Sanipoli con una profonda ricchezza di toni. Dolente Sara è stata Olga Villi, che alla elegante figurina iniziale è andata sovrapponendo la sdrucita, intristita, appenata creatura dell'ultimo atto. Ma l'elenco è denso di nomi e di citazioni: ben volentieri abbiamo rivisto Corrado Pani, che nelle vesti di uno dei messaggeri ha confermato le sue tipiche qualità:  con lui ricordiamo la breve apparizione fortemente incisiva di Zora Piazza e quella di Luca Ronconi. Dei tre consolatoti, Andrea Bosic è stato il fanatico propagandista politico, Mario Scaccia lo psicoanalista e Paolo Giuranna il pastore protestante: tutti e tre hanno dato vigoroso rilievo al personaggio. Corale, per converso, il gruppo delle vicine di casa (Pina Cei, Lauretta Torchio, Amalia D'Alessio, Vittoria di Silverio, Alida Cappellini) impostato su un piano netto di realistico a aggressivo umore.
Infine dovremo ricordare i giovanissimi Giorgio dell'Arti, Paola Quattrini, Elio Lo Cascio, Manuela Tommasini, Rosalinda Galli, che ai figli di J. B. hanno dato voce e sorriso.
Le scene e i costumi di Gianni Polidori hanno a loro volta aggiunto qualche cosa all'interpretazione, creando un clima stupefatto e sospeso, nel quale l'accorta utilizzazione di
suoni, di voci e di musiche (queste ultime dovute a Franco Mannino) ha trovato un'ideale cornice.
Un pubblico folto e attento, in mezzo al quale si notavano il ministro dei trasporti Angelini, il sottosegretario allo spettacolo onorevole Ariosto e il sottosegretario alla pubblica istruzione Di Rocco, ha fatto un'accoglienza caldissima allo spettacolo. Nella notte profonda, rotta solo dal canto dei grilli che saliva dalla vallata, gli applausi hanno coronato la nobile fatica dell'Istituto del Dramma Popolare e di coloro che sono stati chiamati a far rivivere nel moderno J. B. il biblico personaggio di Giobbe.
Paolo Emilio Poesio, Nazione Sera, Firenze, 22 Agosto 1958




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