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La recensione di Odoardo Bertani
 

La recensione

 

Il Vangelo che diventa vita

C'è un romanzo, quest'anno, che, nonostante lo scarso o nessun corredo di luccicanti e festaioli addobbi, grazie ai quali tanti confratelli si rendono di prim'acchito appetibili, ha trovato un gran pubblico e destato molto interesse nella legion critica, con qualche sconcerto per l'inusitatezza strutturale e tematica. E' «Il quinto Evangelo», dello scrittore abruzzese Mario Pomilio. Come è noto, il volume si configura come una specie di «dossier», che rivisita il mito dell'esistenza di un quinto testo apostolico, ancor più degli altri intriso di verità e di profezia, e messaggero di una Rivelazione non sigillata, ma aperta e bisognosa di essere continuamente completata, nonché adempiuta.
Lo sfondo, in altre parole, è un'idea di cristianesimo non evento culturale e non manuale di assiepate formule catechistiche, ma anima e sangue di conflittualità e di salvezze, di secoli e di nazioni, calato nella storia, ma non posseduto da essa; è l'idea di una Parola da riscoprire e da verificare in noi attraverso la collaborazione di ciascuno di noi, di una Parola liberata ogni volta dalle incrostazioni dell'abitudinarietà, e resa feconda perché non adattata, ma ricevuta nell'unico imperativo che propone quello dell'amore.
Questa religione d'amore, che pone ai margini altre esigenze, — ad esempio quella della giustizia —, e si soddisfa pienamente di Cristo, di là dalla Legge, costituisce l'utopia del romanzo, la sua portante ideologica, ed è compaginata nei vari capitoli, che non sono altro se non la raccolta di tutto il corredo storico di informazione, di incitazione, di figure e di eventi relativi all'ipotetica esistenza di un quinto libro evangelico. Una «invidia del fatto» laboriosamente ed argutamente sostenuta, sicché, in pratica, la mente trascorre per duemila anni di cristianesimo spesso approssimativo e contradditorio, ma sempre sperato e inseguito da una folla umile ed emarginata, dai poveri di Cristo, capaci, essi, di fede.
Il romanzo, delle cui tensioni ideali e qualità letterarie altri si è già occupato in questo giornale, si conclude con un testo teatrale, che si immagina inteso dal professor Peter Bergin, il protagonista, la cui biografia combacia con l'avventura della trentennale ricerca del quinto Evangelio, sulla scorta di un abbozzo drammatico lasciato dal prete deceduto, della canonica nella quale, siamo a Colonia, nel 1940, egli fu mandato ad alloggiare e dove la sua vita fu determinata. Il copione, ritrovato alla scomparsa di Bergin da una sua discepola, è dato come «il punto d'arrivo... della lunga meditazione sui Vangeli» condotta dallo studioso americano, non credente; ma si rivela, come ogni opera viva, una zona di scontro ed un punto di partenza.
Vi si immagina che in una sala parrocchiale, nella citata Colonia e in quell'anno di guerra, un gruppo di persone si aduni per meditare sul Gesù e i Vangeli. Vi è anche un protestante, ci sono soldati del Reich, c'è perfino un avvocato ateo ma non indifferente. Nessuno è impreparato all'argomento, in questa comunità che sembra riproporre la dignità dell'uomo — la sua intelligenza, la sua libertà e le sue necessità spirituali — entro un mondo di violenza e di oppressione.
La discussione si fa incandescente sulla questione delle concordanze evangeliche. Ed ecco prendere corpo il progetto di procedere ad esemplificazioni, assumendosi quattro degli intervenuti il compito di leggere i brani dei singoli autori, da esaminare. La lettura diventa, ben presto immedesimazione, e da ciò la voglia degli altri partecipanti alla seduta, di assumere questo o quel ruolo.
Saranno i racconti della Passione ad essere analizzati e confrontati; ed ecco distribuirsi le parti comparire Giuda e Caifa, Pilato e Barabba. Comincia l'operazione esegetica, ma gli stimoli provocati dalla sinossi saranno gradualmente superati da una tensione nuova da un interrogare che diventerà un interrogarsi, da una mimesi che diventerà autenticazione personale. Il grande, tenace, affilato dibattito intellettuale sarà l'occasione di verifiche individuali, di un singolo prendere partito, e non in ordine a pur importanti questioni di critica testuale, bensì al problema del che cosa significa essere cristiano e di come lo si è. E questo, in termini sempre meno astratti: il dibattito da religioso si muta in etico-politico, e, in concreto, si conclude con una serie di arresti. Il colpo di scena avviene ad opera dell'ufficiale presente colto da una specie di raptus, quando il dibattito è pervenuto all'argomento fondamentale della libertà, e dunque a valutare i limiti d'obbedienza verso lo Stato, da non valicare, pena la decadenza da cristiano.
Siamo in un'attualità tematica, che però non ha nulla di contingente. E' significativo della temperie e dell'angolatura culturali dell'opera, che nessun pedale sia premuto sulla cornice storica e che invece, la disputa riguardi l'atteggiamento da assumersi, in qualunque circostanza, di fronte al potere, quale può configurarsi nello Stato che si fa hegelianamente, ed assume i connotati di una laica sacralità, e si fa adorare, come valore unico ed onnicomprensivo.
Il dovere del cristiano, allora, si dice Pomilio, è di rappresentare un'alternativa di rivendicare i diritti e i valori dell'uomo. E noi osserviamo che questo dissenso acquista la sua piena forza dirompente, quando appunto non si gioca in meri termini politici, non esprime un'altalena di posizioni egemoniche ed un banale cambio della guardia, ma è la risposta dello spirito ad una sfida storica sorda al richiamo di quella dimensione, che fa riconoscere l'uomo nella natura. Inoltre, questa contestazione acquista il più alto valore allorché non si esaurisce in un'esercitazione verbale, ma si fa testimonianza. In questa prospettiva va intesa l'isola presentataci da Pomilio, questo gruppo composito — dove molte distinzioni di partenza sono sfumate e dove non c'è odore di dogmatismi — che è già a livello di coscienza un'obiezione, e la radice dell'abbozzo di una storia diversa. Ogni volta che la legge arresta il Cristo, in un altro uomo fattosi libero, riaffiora il volto del Cristo.
All'inesorabilità di questa posizione di fondo, Mario Pomilio ha accompagnato, nel corso del suo lavoro teatrale, un'eccellente sensibilità per le domande e le problematiche più inquietanti, connesse con le varie figure e i vari momenti della Passione. Uno per tutti, il tema del libero arbitrio, e di qui il risalto al sofferto personaggio di Giuda, un Giuda che è sempre il rischio di ciascuno di noi. Ma è soprattutto notevolissima questa armoniosa dialettica tra il senso e la metafora, tra il particolare e il generale, tra l'oggi e il sempre, tra lo spirito e la storia, tra la fede e la legge, tra il fato e l'utopia, tra la politica e la religione, tra la filologia e la creatività, tra la realtà e il simbolo. Un «cahier» di contrapposizioni che potrebbe continuare a lungo, e che noi citiamo per indicare i fermenti di un'opera, che proclama essa stessa la necessità di un lievito continuo nell'esistenza individuale e nella vita sociale, per evitare ogni sclerosi ed ogni sistema.
Singole, opinabili affermazioni e qualche curiosa dimenticanza (come quella della teoria della determinazione, insomma il problema delle opere e della grazia in area protestante) non infirmano l'illuminata passionalità di un'opera che, altresì, acquista un'importanza storica laddove, riprendendo un discorso proprio della generazione dei Bernanos e dei Mauriac, si cala nella realtà contemporanea mutandone i temi di fondo, e quindi superando ogni impostazione anteriore. Il discorso religioso e politico di Pomilio, infine, ha un taglio che ne garantisce una lettura europea, mentre pone in essere un teatro non didascalico, ma problematico, aperto (ecco il punto in cui la forma realizza, direi eticamente, il contenuto), entro il quale circolano idee né prese a prestito, né «interessate»; o per lo meno, interessate a costruire l'uomo giusto come premessa ad ogni piano di cambiare il mondo. Che sarebbe poi la risposta cristiana a una proposizione marxista.
Questo dramma, lucido e teso fino allo spasimo, così aspro e disadorno, così concentrato; e infine provocatorio per platee disabituate — e non casualmente — ad udire discorsi d'ordine almeno spiritualistico, è andato in scena, per la ventinovesima Festa del Teatro indetta dall'Istituto del dramma popolare con la regia di Orazio Costa Giovangigli, e per la realizzazione del Teatro Stabile dell'Aquila.
Costa ha sottolineato l'atemporalità del dramma, mantenendo la laicità dei costumi e negando la suggerita adozione di pur minimi travestimenti, allorché gli uomini si fanno personaggi di un teatro nel teatro. Forse, tuttavia, avrebbe giovato usare qualche criterio di distanziazione, nella recitazione, per evitare un'immedesimazione, che tende talvolta a sfumare la prospettiva esemplificatrice, il livello metastorico e metafisico del discorso. A meno che la corporeità ribadita con la personificazione non risponda al disegno di coinvolgerci immediatamente e tutti, noi spettatori. Vero è, che a tratti si annebbia un poco il disegno, la struttura logica di un'opera non assolutamente agevole, per quanto Pirandello ci abbia allenati. Ad avvantaggiarsi, per contro, è la presa teatrale sul pubblico, sottilmente ma energicamente persuaso a convincersi che si tratta di «cose sue».
Bellissimo è il rapporto con la musica voluto da Costa. Certo, la commossa partitura, di sapiente ed ispirato dodecafonismo, dovuta a Sergio Prodigo (ed ottimamente eseguita da Marco Lenzi, Alfredo Milanesi, Ivonne Montanaro e Giulia Tafuri), conta per se stessa; ma occorrerà rilevare che essa è stata concepita non in funzione esornativa, di accompagnamento, bensì come voce autonoma, consapevolmente introduttiva alle motivazioni del lavoro teatrale.
E molto felicemente Orazio Costa è poi intervenuto su qualche personaggio (come quello dell'avvocato Schimmel, l'ateo, condotto ad esprimere un dramma interiore e non più soltanto fervido contradditore); anche più importante il mutamento del finale (attuato in serena collaborazione drammaturgica con l'autore), che nel copione si blocca sull'arresto imprevisto di colui che impersona lo stesso Schimmel, difensore dei diritti elementari dell'uomo nonché del quinto evangelista e anche di Giuda, ad opera del capitano che rappresenta la famigerata obbedienza cieca ed assoluta. Il regista, invece, fa esprimere il proposito della continuità della ricerca di Cristo ad opera dei superstiti, che ai Vangeli vorranno ancora ispirare una testimonianza spontanea e creatrice.
Sull'affollato palcoscenico, esemplare l'impegno recitativo di tutto il complesso, e in particolare di Andrea Bosic, Alberto Ricca, Sergio Reggi, Claudio Trionfi, Pietro Biondi, Mico Cundari, Alberto Mancioppi, Giampiero Fortebraccio, Giovanna Galletti, Sergio Salvi e Gabriele Carrara. Un ascolto molto impegnato ed una risposta di fervidissimi consensi.

ODOARDO BERTANI Avvenire, Milano, 20 Settembre 1975




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