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La recensione di Franco Quadri
 

Trionfo per Mann
Il Viaggio in Italia di Thomas Mann comprende anche Fiorenza, un testo teatrale sconosciuto, l'unico da lui scritto. Per rappresentarlo ci voleva quell'eterno scopritore che è Aldo Trionfo, arrivato così a realizzare il vecchio sogno di coniugare la passione di una generazione per '' lo scrittore tedesco, con lo studio degli enigmi del Rinascimento che gli aveva ispirato una bellissima edizione del Candelaio di Giordano Bruno.
Un altro fustigatore di costumi, anche se con pretese di dare una regola a una città, piuttosto che all'universo, e che precedette Bruno sul rogo, frate Girolamo Savonarola, è infatti la figura che domina ambiguamente questo dramma, al quale il regista ha voluto dare un più ampio contorno, completando il copione con l'inserimento di brani delle sue famose prediche. Il testo non prospetta una ricostruzione storica, ma un'immagine allegorica puntata su un dilemma tra poteri, quello religioso e quello temporale, con l'arte a far da ago della bilancia, anzi in posizione di indiziata, in quanto ritenuta dall'integralismo accusatorio del monaco uno strumento della signoria, proiettato verso un nuovo paganesimo. E l'allegoria s'accentua e si svela nel personaggio chiave di Fiorenza, etera bellissima e simbolo della città, amante di Lorenzo de' Medici ormai morente, ma attratta dal nuovo sobillatore di fole, fino a imporre l'incontro tra i due personaggi.
In una sua tipica impostazione, che però ha dovuto venir realizzata nella pratica da Lorenzo Salveti, causa l'indisponibilità fisica del regista, Trionfo schematizza anche visivamente la vicenda. Al centro su un'isola circolare tutta gradini e saliscendi c'è il grande letto bianco di pizzi su cui agonizza Lorenzo, un Arnoldo Foà un po' troppo bonario, forte di una rara somiglianzà con l'originale; attorno a lui, a fungere da cortigiani, ma anche a raccontare gli eventi, personaggi come il Poliziano o Pico della Mirandola, in riproduzioni forzatamente esangui e riduttive, cui fa da specchio un coro di artisti che si atteggiano piuttosto a modelli. Al fianco dell'isola, spuntano cupi in forma di stretti cilindri lignei due pulpiti, tra i quali s'avvincenda nelle vesti del predicatore uno straordinario Virginio Gazzolo, sussurrante e coinvolgente, in preda ai tic e alla malattia, e ben consapevole delle armi più subdole della retorica. Tra l'uno e l'altro agisce e media Fiorenza, vista come un'emanazione dell'arte e quindi, nei paludamenti e nell'atteggiarsi studiato della sofisticata e seducente Sabrina Capucci, tutt'una con una rediviva Primavera del Botticelli, con qualche propensione nel finale verso l'Angelo dell'Annunciazione.
Lo svolgimento resta programmatico e avrebbe potuto essere arricchito da invenzioni e allusioni ironiche, per addolcire qualche riferimento troppo didascalico o l'imbarazzo dell'evocazione storica. Ma tutto è anche chiaramente condizionato al grande colloquio finale, che precede la morte del Magnifico, ed è forse frutto del suo delirio. In queste più alte pagine di scrittura i due personaggi sembrano scontornarsi in uno solo, e il bene e il male una problematica che va aldilà del tempo e non trova perdono di lineamenti e di depositari, la carne emerge laddove si cercava lo spirito, e viceversa. E il loro incontro coincide con quello tra l'autore e il regista, nel segno di soluzioni in quei volti e in quelle parole.
Franco Quadri Panorama, Milano, 31 Agosto 1986




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