Il «paradosso» della fede e quello di Graham Greene
La mortificazione dell'uomo di fronte all'intolleranza è un fardello troppo pesante per un semplice mortale. Solo una «resurrezione», consente di reagire e vincere il «vuoto mentale» e il silenzio. È questo il tema de Il capanno degli attrezzi di Graham Greene, rara opera di umanesimo cristiano, presentata in occasione della 41° Festa del Dramma Popolare di San Miniato.
Il tema di quesfo «miracle play» — come lo ha definito il regista Sandro Bolchi, tornato felicemente al teatro dopo oltre dieci anni di assenza — non si propone in modo «apologetico». Non è un pubblico di fedeli quello che il cattolico inglese Greene mostra di cercare, a cui spiegare la sua «conversione». Il capanno degli attrezzi si svolge nella casa di una famiglia di atei, i «Callifer». Il vecchio, «darwiniano» convinto, sta morendo: solo l'interesse di una giovane nipote fa sì che un figlio, escluso dalla famiglia torni a casa.
Comincia da questo ritorno la vicenda di James Callifer alla ricerca dei motivi per cui l'intera famiglia lo considera un «emarginato». Con tocco sapiente, un ritmo quasi poliziesco, Greene svela il segreto del «capanno»: il giovane James, a 14 anni, si era impiccato dopo una violenta lite col padre. Motivo dello scontro l'avvicinarsi del ragazzo al cristianesimo, sotto la guida di uno zio prete. Ed è proprio il prete a trovare il giovane, a crederlo morto, e a chiedere a Dio la «resurrezione» offrendo in cambio quel che ha di più caro: la propria fede.
A Greene non interessa se il miracolo sia veramente avvenuto. Egli però vuole che i suoi personaggi ci credano. Tutti. La vittima James (un bravissimo Carlo Simoni) che riesce finalmente a rompere il muro che lo divide dal mondo, a comprendere «cosa c'è che non va» in lui. Ci crede il vecchio prete alcolizzato, che nell'incontro, angoscioso e liberatorio, col nipote, comprende che la sua preghiera è stata esaudita (Mario Maranzana ha offerto uno straordinario padre Callifer, un umanissimo ritratto della disperazione). Ci hanno sempre creduto, soprattutto la madre di James (Regina Bianchi) ed anche il padre — è lei stessa a confessarlo — ma nessuno dei due ha voluto «accettare» quella prova, abbandonare ogni idea fino ad allora seguita per una realtà così diversa.
L'ultimo atto del dramma è un a pagina di speranza: James tornerà insieme alla ex moglie, abbandonata molti anni prima, tormentato dai suoi dubbi.
Al regista Bolchi il pubblico ha riconosciuto il merito di avere allestito uno spettacolo misterioso e affascinante nella suggestiva piazza di San Miniato, esaltando così il messaggio dell'opera di Greene: «Io non voglio Dio, io non amo Dio, ma lui è qui... è inutile fingere».
Il Secolo d'Italia 19 luglio 1987
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