La recensione
Il primo degli inquieti preti bernanosiani
È sorprendente, a dir poco, che uno scrittore come Georges Bernanos, che ebbe del cattolicesimo una concezione così fortemente drammatica, non abbia dato al teatro altro che un'opera nata, si può dire, per caso, come sono i Dialoghi delle Carmelitane, concepiti dapprima come scenario filmico e successivamente realizzati in forma drammaturgica. Bernanos, che non aveva soverchia simpatia per il romanzo come forma d'espressione in sé, nondimeno fu autore soprattutto di romanzi, e di saggi nei quali però rispuntava la foga e l'estro del narratore. Al romanzo, alla narrativa egli si sentiva quasi «condannato», forse come alla forma letteraria che gli permetteva di esprimere nel modo più libero e compiuto, nello stesso tempo, il mondo della sua memoria poetica e le sue dirette reazioni di fronte agli eventi, alla società, allo spirito del suo tempo.
Perciò se è ben spiegabile che per la «Festa del Teatro» celebrata a San Miniato per il diciannovesimo anno consecutivo a cura dell'Istituto del Dramma Popolare, Diego Fabbri in collaborazione con Claudio Novelli abbia pensato di dar forma scenica al primo, in ordine di tempo, dei romanzi di Bernanos, Sotto il sole di Satana; se dietro a questa scelta s'intravedono non solo e non tanto le ideali affinità di uno scrittore come Fabbri con i temi di Bernanos, ma anche la necessità (più che mai viva in un momento come questo, in cui il repertorio di ispirazione religiosa e spiritualistica è pressoché privo di apporti nuovi) di ricercare altrove le voci che su questi temi hanno testimoniato in forme diverse da quella drammatica; queste, e le mille altre validissime ragioni di riportare l'attenzione su uno scrittore come Bernanos e il suo cattolicesimo agostiniano, non eliminano le serie difficoltà che, proprio in uno scrittore come Bernanos, presenta la sempre rischiosa operazione di trasporto della pagina alla scena.
Cattolicesimo drammatico: la concezione di Bernanos, che in Sotto il sole di Satana ha la sua prima ma già matura espressione, è quella di una esperienza religiosa che ha il suo fulcro nel contrasto, nella lotta, nel drammatico e sempre rinnovato scontro con una presenza ineluttabile nel mondo, quella del male e del peccato. Il protagonista di Sotto il sole di Satana, il giovane sacerdote Donissan, appartiene a quella razza di preti inquieti, macerati da un fervore ansioso nel quale l'elevazione verso il soprannaturale si mescola ad una aspra e sofferta partecipazione alla pena e al peccato degli altri, e il cui compito non è tanto quello dell'ascesi contemplativa, ma piuttosto il quotidiano fronteggiamento del Maligno. Nel giovane Donissan s'impersona già l'idea di una religione che rifiuta la pace immobile, il quieto conformismo, l'equilibrio definitivo; si precisa un'immagine del male che è fatto consistere proprio in «una pace muta, solitaria, diaccia, paragonabile al diletto del nulla». L'itinerario di Donissan è la fuga dalla tentazione della solitudine e della disperazione, l'incontro con gli altri: dal difficile rapporto con l'anziano rettore della parrocchia di campagna dov'egli è stato destinato come vicario, allo sconvolgente incontro con la giovanissima Mouchette che fornisce una precoce ed amara immagine della presenza del male, ma che, al termine della sua tragica esperienza, trova l'estremo suggello della grazia e della salvezza; e poi all'incontro degli incontri, quello che oppone il fragile prete al Maligno rivestito di sembianze umane.
Per trasporre un così complesso romanzo dalla pagina alla scena, Fabbri si è servito di una tecnica a lui cara, quella dell'inchiesta-processo. La vicenda di Donissan è vista come una sorta di processo di canonizzazione alla rovescia: l'inchiesta svolta da un prelato del vescovado sulla allarmante attività pastorale del giovane sacerdote evoca, con successivi ritorni all'indietro nel tempo, le tappe fondamentali del suo itinerario spirituale. La vicenda scenica acquista così una sua progressione drammatica ed esprime il fascino di un'atmosfera, soprattutto fintantoché s'incentra sul personaggio di Mouchette, il più aperto alle possibilità di drammatizzazione, mentre nell'ultima parte il «dossier» si fa più frammentario e sfuggente. Quello che, per forza di cose, non si è potuto trasferire dalla pagina alla scena, è proprio lo stile di Bernanos, quel suo modo di narrare per squarci diseguali, quell'alternarsi di atmosfere ossessive ed oniriche con scene realistiche a sensazione, brani di diario e monologhi intcriori. Figure come quella di Donissan, portate alla dimensione di personaggi scenici, conservano solo una parte della loro significazione; mentre l'ossessiva presenza del Maligno, qui tradotta in una triplice personificazione successiva, abbandona la zona del mistero per trasferirsi in quella della meccanica evidenza.
La regia di Josè Quaglio ha preferito, piuttosto che cercare un approfondimento critico del testo, renderlo esplicito e visivamente plausibile. Le soluzione prescelte, il taglio e il raccordo delle scene, l'uso delle luci, il commento musicale, rendevano l'idea di una illustrazione fedele, in modi onestamente vicini a quelli di una sceneggiatura.
Tra gli interpreti ha nettamente fatto spicco Giulio Bosetti, che ha saputo trovare, per un personaggio sfuggente e segreto come quello di Donissan, una semplicità, una misura ed un intelligente equilibrio che in qualche momento hanno dato risultati davvero toccanti. Anche Adriana Asti è stata una Mouchette nervosa, guizzante, con felici scatti di temperamento. Vittorio Sanipoli, nelle successive incarnazioni del Maligno, ne ha reso un'immagine corposa, proterva, alla quale mancava forse un pizzico di sottigliezza e di astrazione. Fosco Giachetti era il dignitoso prelato che conduceva l'inchiesta. Augusto Mastrantoni il parroco anziano, Attilio Cucari un aristocratico di campagna e Diego Michelotti un politicante di provincia. Insieme a loro, la Girola, la De Santis e il Dani. Lo spettacolo ha avuto luogo sul sagrato antistante la chiesa di San Francesco, all'interno della quale, tredici anni or sono, vennero per la prima volta rappresentati i memorabili Dialoghi delle Carmelitane con la regia di Grazio Costa. Nella cornice naturale erano inseriti elementi scenografici di tipo funzionale dovuti a Misha Scandella. Il successo è stato vivo: tutti gli attori, e specialmente Bosetti, nonché il regista, sono stati ripetutamente applauditi al termine dello spettacolo.
RENZO TIAN, Il Messaggero di Roma, Roma, 25 Giugno 1965
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