La recensione
La sofferta vergogna di un misero prete
La IX festa del teatro indetta dall'Istituto del Dramma Popolare, onorata quest'anno dalla presenza del Capo dello Stato, Giovanni Gronchi, è stata preceduta, nel pomeriggio di oggi, da una cerimonia intima e solenne. Nella basilica di San Francesco, che accolse alcuni tra i migliori spettacoli allestiti sotto il patrocinio dell'Istituto del Dramma Popolare, è stato commemorato Silvio d'Amico, tenace assertore dell'Istituto stesso e patrocinatore della sua iniziativa fin dagli esordi.
Alla presenza di un pubblico foltissimo e dei familiari dello scrittore, nello stesso luogo in cui Silvio D'Amico due anni or sono aveva commemorato Ugo Betti prima che si desse inizio alla rappresentazione dell'"Aiuola bruciata", Achille Fiocco ha con parola nitida e commossa ricordato lo Scomparso. Allievo e collaboratore di D'Amico, Fiocco ne ha rievocata l'immagine intellettuale, spirituale e umana, sottolineandone i caratteri salienti. Una presenza che la morte non ha cancellata e che di giorno in giorno si fa sentire più viva.
Molti applausi hanno coronato l'orazione di Achille Fiocco. Ma l'Istituto del Dramma Popolare ha voluto che a San Miniato, dove d'Amico era di casa, il suo nome e la sua opera non fossero ricordati soltanto con la parola. Una lapide di pregevole fattura da oggi ne tramanda la memoria. Contemporaneamente l'Istituto ha promosso la compilazione e la stampa di un volume che di D'Amico raccoglie quanto egli scrisse intorno al dramma religioso. Pubblicazione nutrita, della quale durante la cerimonia sono state distribuite le prime copie quasi che dalla pagina stampata la voce dello scrittore potesse ancora giungere ai presenti per lenire il loro rimpianto.
A sera, nella piazza della Cattedrale che il pubblico gremiva fino alla scalinata del palazzo vescovile, è stato rappresentato, nuovo per l'Italia, il dramma "Il potere e la gloria" di Graham Greene. Non staremo a riproporre in questa occasione un problema che riguarda la essenza medesima della drammaturgia e attorno al quale si discute da moltissimo tempo: se cioè sia giusto attribuire a uno scrittore la paternità di un'opera drammatica che altri hanno derivato da una sua opera narrativa. In questo senso il caso di Graham Greene,
il cui dramma "Il potere e la gloria" discende da un romanzo che Denis Cannan e Pierre Bost hanno adattato per la scena con il consenso dello scrittore (a un adattamento fatto da altri Graham Greene non diede l'assenso), non differisce sostanzialmente da altri casi del genere, talvolta insigni.
Alludiamo soprattutto alle riduzioni sceniche dei romanzi di Dostojevski e di Tolstoj, cui si dedicarono scrittori e uomini di teatro di qualità prettamente intellettualistica. Un Copeau e un Baty non esitarono ad assumere la responsabilità di simili imprese. Ma resta ancora da domandarsi, ad esempio, fino a qual punto il vero Dostojevski sia riconoscibile nelle riduzioni teatrali dei "Karamazov", di "Delitto e Castigo" o dei "Demoni". Di quelle opere rimane il disegno, oseremmo dire il contorno, non il sottofondo che dà vita e mistero alla loro forma originaria.
Statura a parte, Graham Greene per certi aspetti è scrittore teatralmente meglio traducibile. L'ambientazione dei suoi romanzi è in genere suggestiva (si pensi al "Terzo uomo"), i suoi personaggi hanno caratteri rilevati e le parti dialogiche, così spesso lucide e diritte, sono di qualità drammatica. Anche ne "Il potere e la gloria", che si svolge in una città del Messico « tempo addietro », la suggestione ambientale non fa difetto. Siamo tra persone miserabili, che vivono in un clima inclemente, inasprito dai rigori di una rivoluzione in atto. Nel Messico proibizionista di Graham Greene si dà con uguale accanimento la caccia tanto ai frodatori e ai bevitori d'alcool quanto ai preti. Consentire a una pratica religiosa o bere un bicchierino significa rischiare il plotone di esecuzione.
Il rapporto tra la religione e le bevande alcooliche non è occasionale. Vediamo all'inizio del dramma un piccolo uomo mal ridotto presentarsi a uno sciagurato dentista, il dottor Trench, e chiedere prima una bottiglia di cognac, poi domandare dove sia possibile trovare del vino. Il vino sarà, durante i sei quadri del dramma, l'ossessione di quell'uomo che presto sapremo essere un prete. Egli è l'ultimo sacerdote rimasto su quel territorio, da dieci anni inseguito dalla polizia che inutilmente tenta di scoprirlo, da dieci anni affannosamente in cerca di una boccetta di vino per poter celebrare con il rito della Eucarestia, qualche messa clandestina.
Non a caso il prete di Graham Greene è anonimo. E non a caso nelle sue avventure per quanto penose e di quando in quando eroiche, non ravvisiamo il senso vero del racconto né del dramma. Il protagonista de "Il potere e la gloria" non è affatto un sacerdote esemplare. Uomo debole, apparentemente simile agli altri, egli si è unito in passato a una donna dalla quale ebbe una figlia, e i suoi fedeli lo sapevano, e anche adesso quanti lo riconoscono non si meravigliano troppo che egli, ogni volta che può, si lasci vincere dall'alcool e nella ubriachezza tenti di affogare la paura. A quell'uomo, niente affatto esemplare, sembra che del sacerdote manchi una qualità fondamentale: il coraggio.
Perché allora non si è arreso al governo rivoluzionario, o più semplicemente non ha cercato la salvezza aderendo ad una norma che manda liberi i preti disposti ad ammogliarsi? Una moglie della manica sinistra, lui, se l'era già procurata, e il suo nuovo stato gli avrebbe consentito di riconoscere la propria figlia. Tuttavia proprio questi interrogativi aiutano a scoprire il senso del dramma. Sciagurato, vile, peccatore, incline al compromesso, quel prete non sa resistere « suo malgrado » al richiamo di Dio tutte le volte che il suo ministero si rivela insostituibile. Pur di assistere un moribondo egli rinunzia alla clandestinità, alla fuga, alla salvezza della propria vita. E sarà proprio per recare il conforto della religione a un delinquente in punto di morte ch'egli cadrà nelle mani della polizia. Pur sapendo che una taglia pende sulla sua testa, convinto che si tratti di un inganno, ciò non ostante il sacerdote, « nel dubbio », si reca al luogo indicato. « Non ha troppa importanza » egli dice al tenente della polizia, dopo aver assolto il moribondo, « che io personalmente sia un codardo, un alcoolizzato, eccettera, quando posso personalmente introdurre Iddio nella bocca di un uomo e dargli il perdono di Dio. Da questo punto di vista non farebbe differenza se i preti della Chiesa fossero tutti, fino all'ultimo, corrotti come me ».
Parole cui dà luce l'episodio finale. Quando il protagonista è già uscito per avviarsi verso il plotone di esecuzione, un piccolo uomo dimesso, in tutto simile a lui, si presenta al dottor Trench e pronunzia le stesse parole convenzionali che all'inizio avevamo sentito pronunziare dal condannato. Quanto dire che l'ultimo sacerdote non esiste: un nuovo sacerdote sarà sempre pronto a prendere il suo posto rimasto vuoto.
Questa spiritualità, cercata non attraverso gli esempi fulgidi, ma indagando l'animo dei rappresentanti della Chiesa
meno degni, è tra i motivi dominanti di Graham Greene; anche il sacerdote paralizzato di "Living Room" sta a significare una fede operante soltanto a metà. Ne "II potere e la gloria" è chiaro che l'intimità del romanzo, passando dalla pagina alla ribalta, in buona parte si sperde. Ma in quanto a sostanza Cannan e Bost, sia pure attraverso una schematizzazione talvolta un po' povera, in definitiva riescono a salvarne il concetto e a tradurlo drammaticamente mostrandone il vigore.
Il fondo, il fondo spirituale del "Potere e la gloria" è stato inteso da Luigi Squarzina nella sua vera essenza. Vogliamo dire che esso non si prestava ad amplificazioni retoriche, e il regista ha capito quanto la sua significazione potesse meglio esprimersi attraverso talune coraggiose crudezze. Ma Graham Greene, come abbiamo accennato più sopra, non rifugge né dalle caratterizzazioni né dagli ambienti pittoreschi; e il Messico nel quale si svolge il dramma, i profittatori, i miserabili e gli oppressi i quali si muovono entro i sei quadri che lo compongono, hanno suggerito a Squarzina un ampio affresco spettacolare. Sulla scena imponente e suggestiva immaginata da Gianni Polidori egli ha atteggiato e mosso la folla dei personaggi, circa una quarantina, traendone effetti bellissimi ai quali non di rado ha giovato il commento musicale di Firenze Carpi.
Fra gli attori tutti intonati alla esigenza generale dello spettacolo, un posto a parte spetta ad Aroldo Tieri, sul quale gravava la maggiore responsabilità della rappresentazione. La angosciosa paura e la sofferta vergogna del protagonista, uomo miserabile che tuttavia permane ministro di Dio, hanno trovato in Tieri un interprete agguerritissimo la cui lucidezza, alla fine, si è arricchita di un palpito misterioso. Accanto a lui, in una scena breve ma fortemente impegnativa, Zora Piazza ha conferito al personaggio di Maria gesti ed accenti di sicuro rilievo. E abbiamo riascoltato con soddisfazione Ivo Garrani, tenente rivoluzionario di umana franchezza e Mario Ferrari, Achille Maieroni, Antonio Pierfederici, Checco Rissone, che hanno con bella misura contribuito alla armonia della recita. Ma bisognerebbe ricordare anche gli altri da Maria Fabbri ad Elena De Merich, a Mimma Garrani, a Lametta Torchio, alla giovanissima Alida Cappellini, da Vinicio Sofia a Italo Aifaro, ad Alfredo Bianchini, a Gastone Moschin, a Sergio Graziani. Tutti applauditissimi da un pubblico di eccezione giunto da ogni parte per assistere all'eccezionale spettacolo.
RAUL RADICE II Giornale d'Italia, Roma, 21 Agosto 1955
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