Dibattiti, paradossi e imprevedibili verità
Non è per fare della da noi inattingibile filosofia, ma par bene che i concetti di indispensabilità e di opportunità appartengono alla sfera dell'opinabile e quindi del relativo e del soggettivo. Forse non era — in astratto — proprio indispensabile rappresentare uno dei due soli testi drammatici di Gilbert K. Chesterton, ma opportuno certamente sì. E per molti ragioni. Anzitutto per mettere a fuoco una figura eccellente (grazie anche al «suo» padre Brown) di scrittore popolare; poi per dare rilievo a uno degli aspetti di un personaggio poliedrico per vivacità intellettuale e molteplicità di interessi e di mai arresa coscienza. In terzo luogo, per rimediare a una clamorosa incuria (non esiste di lui, autore anche dell'unico saggio su G.B. Show ancora ben leggibile, un'antologia che lo faccia riconoscere definitivamente) e, insomma, per pagare un debito a una eminente figura di intellettuale cattolico impegnato (si diceva così in passato), di fede combattiva e di lucida coscienza civile. E snobbarlo può essere solo prova di laica distrazione. Benvenute, per tanto, la prima traduzione e la prima messinscena di Magic, un testo lieve, saporoso e «fantastico» che il londinese Chesterton scrisse quando ancora non era cattolico, nel 1913, domandandosi affabilmente ma non irenisticamente, le inquietudini e i bisogni dell'uomo in ordine all'essere e all'esistenza, ossia sul rapporto tra realtà e soprannaturale, tra storia, certezze e miti collaudati da un lato e sommovimenti dello spirito, sogni e «diversità» dall'altro. Due modi, due mentalità di leggere, di capire e di sentire il mondo. Ad andare in crisi sono perciò il sistema scientifico, il sapere acquisito, la fede formale e rassicurante, la certezza, lo stabilito, il «due più due fa quattro» una volta per sempre. A provocare questa crisi è la santa ingenuità di una ragazza e a sconcertare è la «magia», sono i trucchi di un giovanotto che si improvvisa prestigiatore (e innamorato di lei, come si scoprirà poi), la cui presenza in casa di un Duca (vittoriano) ameno e garbato fa da cartina di tornasole di posizioni e di atteggiamenti stereotipi o magari di comodo, che rivisitati, mostrano la limitata fondatezza di formule razionalistiche o positivistiche. Già Shakespeare aveva avvertito che tra cielo e terra ci sono tante cose non corrivamente alfabetizzabili.
La vicenda, dunque, è un acceso dibattito (ma nulla di gravoso) condito di battute, di paradossi e di riflessioni e di richiami a imprevedibili verità, che il numerosissimo pubblico ha mostrato di cogliere e di gradire; la trama è ricca di sorprese e di «improvvisi», di arguzia e di sorrisi disvaganti, finché tutto converge sulle ragioni, sui diritti, sul buon senso, sulla fantasia sempre però con vigile intelligenza e con la salute del dubbio e della libertà messa in atto.
La produzione avveduta e consapevole e spigliata di Saverio Simonelli e la disinvolta regia di Mario Scaccia (poi piacevolissimo nella parte fiancheggiante del Duca) coadiuvati da Corrado Olmi, e poi da cinque giovani attori (fra i quali la delicata Chiara Sasso), hanno contribuito alla vivida ricevibilità di un testo spontaneo ed educatamente polemico. Alla prima della festa del teatro (la 39° dell'Istituto del Dramma Popolare), erano presentì l'arcivescovo di Firenze, cardinale Piovanelli e numerosi vescovi della regione Toscana. È stata una serata buona, di comunicazioni che si susseguono ma fervida di sorprese e di punti di vista. Molti, molti gli applausi del bel pubblico presente.
ODOARDO BERTANI, Avvenire 25 luglio 1995
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