Una parabola che non vela ma rivela la realtà
Quest'anno l'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato ospita un autore spagnolo poco noto fra noi ma non alle patrie galere. Antonio Buero Vallejo venne condannato a morte dopo la guerra civile, la pena gli fu commutata e stette in carcere fino al 1946, anno in cui uscì in libertà provvisoria. Una minacciosa provvisorietà che non lo ha intimidito. Ha continuato nella sua opposizione al regime andando oltre i limiti ammessi per far credere che la democrazia in Spagna può esistere (il regime del generale è molto più astuto di quello zotico dei colonnelli greci). Tanto da giocarsi le indulgenze paternalistiche della censura che per alcuni anni gli ha chiuso i teatri in faccia.
Scrive drammi e commedie dal '49 e fino al '63 ne ha rappresentati una dozzina. Ebbe successo immediato vincendo il massimo premio nazionale. Non sono, le sue, opere evasive, di consumo ma aperte alla vita del paese vista con occhi ribelli. Naturalmente dovrà scegliere la parabola per schivare rigori paralizzanti, ma la parabola non è soluzione prudente bensì più efficace di una descrizione della realtà per la sua capacità di espanderne il significato. Del resto il velo della metafora è sottile e trasparente, come qui, in questo Concerto di Sant'Ovidio tradotto in modo eccellente da Maria Luisa Aguirre — nipote di Pirandello — e rappresentato sul sagrato del Duomo dal Teatro Stabile di Genova con la regia di Paolo Giuranna.
Ne Il concerto come già in un precedente lavoro, Nella oscurità ardente, che è del '50, Vallejo mette in scena dei ciechi. E si capisce presto che cosa significhino, basta citare una battuta loro: «Noi ciechi non siamo uomini. Sorridiamo senza averne voglia, aduliamo chi è potente, ci trasformiamo in pagliacci». E non è senza significato che l'azione si svolga alla vigilia della Rivoluzione Francese.
Esisteva a Parigi un asilo per ciechi protetto dalla Corte ma campava soprattutto di elemosina che gli ospiti fregiati del giglio reale — distintivo o marchio? — potevano «liberamente» chiedere nelle strade. Li si poteva anche prendere in affitto come fa qui l'impresario Luigi Maria Valindin che ha un caffè alla fiera di Sant'Ovidio e ve li vuoi far cantare e suonare. Nei ciechi c'è un sussulto di speranza: è forse arrivato colui che può aiutarli a vincere lo stato di soggezione al quale li costringe la sventura e che secondo uno di essi, David, non è insuperabile? Unirsi, accordarsi sotto una guida illuminata, creare un concerto da gente che vede. Ma l'impresario la musica se la sceglie lui, volgare, da baraccone, da richiamare lazzi e risate e che serva i suoi soli interessi di cassetta. I ciechi vestiranno costumi pagliacceschi e il più «innocente» di tutti, un mezzo idiota, canterà le canzoni volute da Valindin, lasciandosi incoronare con lunghe orecchie di asino. I sogni di evoluzione, di emancipazione, di indipendenza da raggiungere attraverso una armonia collettiva, sono traditi ma il solo a dolersene veramente è David: gli altri la cecità se la meritano.
Valindin ha una amante, Adriana. La mantiene bene in cambio di una servitù totale alla quale ella è insofferente tanto da trovarsi naturale alleata di quei disgraziati (leggiamo che certuno ha visto in lei adombrarsi addirittura la Chiesa in Spagna ma, anche per quanto la ragazza fa dietro le quinte, l'accostamento deve sconcertare i più ortodossi) e cercando di sottrarre David alla forca. Perché David non sopportando la sottomissione abbietta del contratto che lo costringe a far il buffone in piazza, trascinerà Valindin nel proprio regno, il buio (basta spegnere una lanterna) dove egli solo «vede» e là può giustiziarlo. I ciechi si riscatteranno se la cecità non è rassegnata o sfruttata.
David finirà impiccato ma i giorni della Bastiglia sono maturi. Alla fine si ripresenta un personaggio prima appena intrawisto, Valentino Hauy a raccontarci che commosso e indignato dallo spettacolo di quelPormai lontano giorno di Sant'Ovidio si era da allora proposto di adoprarsi al recupero di quei disgraziati e fu infatti uno degli inventori dell'alfabeto per i ciechi. Si suggerisce cioè che tutta la storia è stata scritta in onore di un precursore del sistema Braille. Pannicelli caldi per la censura? O astuzia di candido contrabbandiere.
Abbiamo indugiato nel racconto per chiarirne il fondo e le intenzioni. La scelta del testo da rappresentare qui, ha poi un senso preciso, è un richiamo «ai valori fondamentali della dignità della persona umana e che viene da un uomo e da un paese che per tali valori hanno lungamente sofferto e tuttora soffrono». Parole del programma e probabilmente del direttore della «Festa», don Giancarlo Ruggini — che non vuole «un teatro edificante di pura agiografia ma un teatro inquietante».
Il dramma rivela originalità di fantasia, passione contenuta, ma non transigente, crudeltà stimolatrice, possesso sicuro degli strumenti teatrali — anche se appartenenti ad un linguaggio che ignora o schiva le nostre ultime ricerche e avventure — forse per non lasciarsi distogliere da compiti precisi e largamente distribuibili. La realizzazione è di buon livello, il «concertato» dei ciechi sorretto assai bene con composizioni in cui allegoria e realtà si equilibrano e chiariscono a vicenda. L'isolamento disarmato che li pone alla mercé dei «veggenti» ed è rotto dalla rivolta di David, viene racchiuso in una infelicità scontrosa che tenta di farsi insultante. Però manca Pesplosione grottesca e feroce che il testo richiede specialmente dove quella infelicità viene sfruttata — e si lascia sfruttare — diventando oggetto di scherno. Si fa pagliaccesca — quasi come si fecero pagliaccesche le maschere della commedia dell'arte nate esse pure da una condizione servile. Ci saremmo aspettati una violenza ingiuriosa ben maggiore dalla scena dello spettacolo pubblico che i ciechi son costretti a dare nel baraccone (e che qualche taglio ha invece indebolita). Né aiuta a giungere allo scopo la scena elegante, a colonnine rinascimentali, di Gianfranco Padovani e le musiche
aggraziate di Ferdinando Cazzato Mainardi. Era il mondo cupo, oppressivo e spietato in cui si sentono imprigionati i ciechi, che a parer nostro andava raffigurato.
La recitazione — al di là di queste riserve — è chiara, sicura. Il gruppo dei ciechi (Gianni De Lellis, Sandro Dalbuono, Maggiorino Porta, Arnaldo Bellofiore, Marzio Margine) è ben articolato nei singoli caratteri e guidato espertamente da Omero Antonutti, un David di una aspra, aggressiva speranzosa infelicità. Ivo Garrani ha ben inteso questo Valindin, più complesso di quanto non appaia, a prima vista, strumento egli pure di un sistema al quale si concede con il cinismo necessario per arrivare. Di una malvagità quasi inconscia, assorbita
con i privilegi carpiti alla Corte. E nonostante tutto vulnerabile proprio per fragilità d'animo. Adriana è un personaggio dubbio, che non sa risolversi se aver pietà di se stessa o se rivoltarsi, e Lucilia Morlacchi sorregge quella ambiguità con dolcezza sdegnosa, piegandola ad una sofferta coerenza. Ricordiamo fra gli altri Dina Braschi, Enrico Ardizzone, Rino Sudano, Simona Caucia.
Al successo del suo dramma assisteva l'autore lungamente festeggiato insieme con gli interpreti.
Massimo Dursi, Il Resto del Carlino, Bologna, 27 Agosto 1967
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